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Un suggerimento sulla lettura delle “Lettere dal carcere” di Erman Dovis e Danilo Sarra[1]

Quando vennero pubblicate, dalla casa editrice Einaudi, le prime “Lettere dal carcere” di Antonio Gramsci, nel 1947, l’ambiente letterario, politico e culturale ne venne letteralmente scosso. Non solo le “Lettere” vinsero il Premio Viareggio in quello stesso anno, ma costrinsero ad intervenire anche eminenti intellettuali del tempo, tra cui Benedetto Croce, che dalle pagine dei “Quaderni della Critica” cercò in qualche modo di svincolare Gramsci dal movimento operaio italiano ed internazionale riconducendolo nel più indistinto ambito della cultura nazionale, conscio dunque della potenza concettuale e pratica dei contributi gramsciani. Ampi strati di opinione pubblica, anche di parte cattolica, accolsero con favore questa altissima testimonianza politica, culturale e morale di Antonio Gramsci. Le “Lettere”, le sue riflessioni e le sue analisi sulla storia e la società italiana s’imposero nel dibattito politico italiano ed europeo, ponendosi come punto di riferimento per la classe operaia internazionale e per le sue organizzazioni.. Non c’è oggi scaffale di libreria che non esponga le “Lettere dal carcere”. Antonio Gramsci è necessario. Alcuni compagni, studenti e lavoratori, ci hanno evidenziato la volontà e il bisogno di approfondire il pensiero gramsciano ritenendola però impresa non facile e non agevole a causa di evidenti limiti di tempo. Il ritmo della società attuale corre frenetico, gli spazi della necessità riducono sempre di più quelli della libertà, e i momenti per una presa di coscienza dell’attualità vivente si fanno sempre più scarsi. Questo lo sappiamo, ed è proprio per questa ragione che citiamo le “Lettere dal carcere”. Esse sono infatti uno strumento agevole e soprattutto “bello”, nel senso affettivo e stilistico del termine, per entrare in contatto profondo col pensiero gramsciano. Con questo non si vuole in alcun modo sminuire il valore dei “Quaderni dal carcere” o degli articoli, peraltro efficacemente selezionati in una nostra recente pubblicazione, e che anzi costituiscono il nerbo teorico della riflessione gramsciana, ma si intende affermare quanto segue sulla base delle considerazioni appena fatte. Le “Lettere” offrono una visione organica, sia politica che umana, sia teorica che pratica, dell’opera di Antonio Gramsci tanto irrinunciabili per la lotta della classe operaia, sempre più stretta da ritmi e condizioni di vita e di lavoro in costante peggioramento. Ciò che si può trovare nei “Quaderni” in forma per così dire teorica, nelle “Lettere” è messo in pratica da Gramsci nei confronti dei suoi familiari. Gramsci sente l’esigenza di “(introdursi) tra gli interessi concreti e vivi della sua esistenza”, cioè del figlio Delio; alla richiesta del figlio Giuliano di farsi scrivere “cose serie”, Gramsci risponde che “tutto ciò che ti riguarda è per me molto serio e mi interessa molto, anche i tuoi giochi”; alla moglie Giulia scrive di “fantasia concreta” quale facoltà da favorire nei figli, definendola come “l’attitudine a rivivere la vita degli altri, così come è realmente determinata, coi suoi bisogni, le sue esigenze, ecc., non per rappresentarla artisticamente, ma per comprenderla ed entrare in contatto intimo: anche per non far del male”; infine chiarisce a varie riprese che la “formazione di una personalità” è un processo lungo e complesso, che non va risolto precocemente: significativa in tal senso è la lettera del 1 agosto 1932. Tutti questi aspetti, intrisi dell’affetto di padre, altro non sono che il riverbero pratico concreto delle riflessioni sviluppate da Gramsci sul concetto di “egemonia”. Come posso infatti affermare le mie posizioni, affinché siano esse condivise, se mi pongo al di sopra degli altri e dagli altri distaccato, e se non tengo invece conto del loro essere attuale, della loro coscienza, del loro mondo, della loro cultura? Interessante da questo punto di vista è il modo che ha Gramsci di confrontarsi con la madre, ricorrendo spesso a temi di carattere religioso e localistico, perché evidentemente fanno essi parte della vita culturale di lei. In questo modo, penetrando a fondo nel mondo intellettuale dell’altra, Gramsci può sperare di convincerla a non stare in pena per lui, ad accettare con orgoglio le ragioni della sua carcerazione, a scardinare in lei l’idea che carcere voglia dire delinquente. A portarla insomma sulle proprie posizioni, che risultano oggettivamente incomprensibili e lontane alla madre. Questo è esattamente il compito “egemonico” che si pone ad un livello superiore all’intellettuale collettivo, alla soggettività che si propone di guidare verso una trasformazione radicale dei rapporti sociali e la società nel suo complesso. Possono sembrare delle forzature, ma si tratta del senso esatto dell’insegnamento gramsciano che ha permesso di conquistare personalità della cultura liberale come Piero Gobetti e molti operai torinesi di estrazione cattolica e moderata alla causa dell’emancipazione della classe operaia; e soltanto un modo di agire di tal fatta consente un effettivo sovvertimento dei rapporti di classe del capitalismo che, in società stratificate come quella europea, non può realizzarsi quarantottescamente. Questo atteggiamento è peraltro ampiamente evidenziato dall’operaio comunista Battista Santhìa, che condivise con Gramsci le lotte degli operai torinesi, nel suo bel libro “Con Gramsci all’Ordine Nuovo”(Editori Riuniti, 1956, pp. 38-39); così virgoletta Santhià le parole di Gramsci, di fronte al rifiuto degli operai comunisti di comunicare con quelli cattolici in nome della propria “ideologia”: “L’unica cosa che vi insegnano è un anticlericalismo stupido, diseducativo intellettualmente e politicamente. Anch’io, non vado in chiesa perché non sono credente. Ma dobbiamo renderci conto che coloro che credono nella religione sono la maggioranza. Se continueremo ad avere rapporti solo con gli atei saremo sempre una minoranza. Ci sono dei borghesi antisocialisti che sono atei, prendono in giro i preti e non vanno in chiesa, eppure sono interventisti e ci combattono aspramente. Questi giovani, invece, vanno a messa, non sono industriali e chiedono solo di lavorare con noi per far cessare al più presto la guerra. Come regolarci? Camminare da soli è sempre un errore, bisogna trovare dei compagni di viaggio. Questo per me è fondamentale. Tu invece hai ancora paura che la compagnia ti costringa a deviare il cammino. Forse perché non sei ancora ben sicuro della nostra ideologia. E chi non è sicuro teme di perdere la giusta strada”.[2] Le “Lettere”, aspetto vivo tra gli altri dell’insegnamento gramsciano, viaggiano di pari passo con i “Quaderni”, contraddistinte però da una vitalità più immediata, più facile alla simpatia umana. Questa è esattamente la forza di Gramsci: la sua attività vive in un tutto organico, non c’è distinzione tra il teorico dei “Quaderni” e l’uomo delle “Lettere”, tra il rivoluzionario e il padre, tra la classe e l’individuo. Per cui suggeriamo di affrontare le “Lettere dal carcere” con la chiave di lettura secondo la quale ciò che si sta approcciando è la applicazione di quanto Gramsci ha maturato e va maturando nel lungo corso della sua vita politica e carceraria sul più completo piano teorico. Approcciate in questa maniera, le “Lettere dal carcere” possono rappresentare contemporaneamente una propedeutica ad uno studio più approfondito, da fare sui “Quaderni dal carcere”, e una robusta nonché entusiasmante conoscenza del pensiero gramsciano. Questo ci sentiamo di consigliare a quei compagni studenti e lavoratori che ci hanno manifestate le loro difficoltà, sperando con ciò di offrire un contributo utile e di non apparire pedanteschi. “La oggettività”, scrive Gramsci a Giulia l’8 settembre del 1924, “non è la vita, è una fredda caricatura fotografica della vita e tu invece vedi la vita vivente”: ecco, le “Lettere” servono proprio a questo, a darci un’immagine vivente del preziosissimo contributo gramsciano e pure un’indicazione di metodo, che non si da comprensione e trasformazione della realtà senza starci dentro con tutto il corpo e con tutta la coscienza di cui siamo capaci, senza presunzioni di innata superiorità, ma con la consapevolezza che tutto ciò che è deve coinvolgerci ed interessarci. Chiudiamo allora con un passaggio, preso da una lettera a Giulia del 19 novembre 1928, che come molti altri, proprio seguendo l’approccio suggerito, ci porta oltre il suo significato immediato: “…Anch’io ho il mio Giappone: è la vita di Pietro, di Paolo e anche di Giulia, di Delio, di Giuliano. Mi manca proprio la sensazione molecolare: come potrei, anche sommariamente, percepire la vita del tutto complesso? Anche la mia vita propria si sente come intirizzita e paralizzata: come potrebbe essere diversamente, se mi manca la sensazione della tua vita e di quella dei bambini?”.

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[1] Per un approfondimento sostanziale legato alla lotta politica attuale che si presenta alla classe operaia internazionale, ricordiamo che il Centro Gramsci di Educazione ha recentemente pubblicato una raccolta di scritti gramsciani, comprensivi anche delle lettere, dal titolo “L’egemonia del socialismo”. Per chi volesse averne una copia può contattarci.
La prima versione delle “Lettere dal carcere”, quella del 1947, non è completa. Successivamente ne sono state pubblicate altre con sempre nuove lettere, ma fino ad oggi l’edizione più completa è quella curata da Antonio A. Santucci per la casa editrice Sellerio. Dello stesso Santucci poi consigliamo l’ottima biografia pubblicata per lo stesso editore.

[2] Il Centro Gramsci di Educazione possiede una copia del testo di Battista Santhìa, purtroppo non ripubblicato dopo la prima, lontana edizione. Siccome ne va riconosciuto l’alto valore sia storico che educativo per la classe operaia, ci proponiamo quanto prima di digitalizzarlo per metterlo a disposizione di tutti.

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