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LA TEORIA DEL FALSIFICAZIONISMO di Piero De Sanctis

Alcune sintetiche osservazioni sulla filosofia reazionaria di Karl Popper

Era verso la metà del mese di agosto scorso quando incappai nella trasmissione Rai Scuola dedicata al filosofo della scienza K. Popper, tenuta dal prof. Giulio Giorello. Mi rallegrai e, avendolo conosciuto culturalmente come uno dei migliori allievi del filosofo Ludovico Geymonat, mi precipitai nella mia biblioteca a cercare uno degli ultimi libri scritti da Geymonat e dal suo collaboratore Giorello. Ma la trasmissione fu una delusione completa. In essa Giorello non espose in maniera critica il pensiero di Popper (come aveva fatto anni prima sotto la direzione del suo maestro) ma, al contrario, lo esaltò come il punto di arrivo del pensiero filosofico scientifico moderno.

Il testo in questione è Attualità del materialismo dialettico del 1974 che contiene, appunto, un suo articolo dal titolo significativo Sulla teoria leniniana del riflesso e dell’approfondimento, con sottotitolo una lapidaria sentenza di Lenin: I senza partito in filosofia son irrimediabilmente ottusi anche in politica. L’articolo inizia con una lunga citazione di Lenin sulla filosofia materialistica, chiarendo la sua duplice natura di strumento di conoscenza e di lotta del proletariato. Continua con un’appassionata sua difesa sia contro gli attacchi degli ideologi borghesi che, come Popper, considerano il materialismo dialettico «dogmatismo consolidato», che contro i seguaci della teoria fenomenologica ed economicistica dello scienziato Ernest Mach, e di tutti quei filosofi (Avenarius Poincaré, Duhem, ecc.) che volevano «modernizzare» le concezioni di Marx e di Engels. Inoltre l’articolo chiarisce la natura esatta della concezione di Marx sullo Stato quale strumento di dominio di classe.

In Le ragioni della scienza di Geymonat, Giorello (Ed. Sagittari Laterza), pubblicato 12 anni dopo l’Attualità del materialismo dialettico, il prof. Giorello scrive, a pagina 176, una sorta di testamento etico-culturale: «Molto spesso, nel corso dei dibattiti di questi ultimi anni, qualcuno mi ha chiesto esplicitamente se mi sono “pentito” di aver scritto un saggio in cui difendevo la teoria del riflesso e la teoria dell’approfondimento secondo Lenin. Ho sempre risposto dicendo che non mi sono pentito affatto di quel saggio o di altre affermazioni pertinenti a tale questione e che non ho intenzione di rinnegare una sola parola per due buoni motivi: 1) perché in quel saggio compivo una analisi delle ragioni addotte da Lenin in difesa dell’approfondimento e devo dire che quelle ragioni di Lenin mi sembrano ancora oggi degne di attenta considerazione;2) in quel saggio non si trova nessuna parola di approvazione dei paesi del socialismo realizzato. Non apprezzo quindi quegli intellettuali oggi antimarxisti che si rimangiano il loro passato marxista dicendo che il marxismo fu per loro un velo che prima copriva gli occhi e poi è loro caduto. Se qualcuno si lascia coprire gli occhi tanto peggio per lui. Personalmente ho letto Marx, Engels, Lenin con molto piacere ma ritengo che non avevo allora (e non ho tutt’ora) alcun velo che mi distorceva la visione della realtà».

Purtroppo, il prof. Giorello, anche lui, in questi ultimi decenni, è passato tra gli intellettuali antimarxisti che rinnegano i loro “trascorsi” di gioventù. Negli ultimi anni della sua vita (Giorello è morto il 15 giugno 2020 per coronavirus) si rese protagonista di un avvincente, affascinante costante dialogo, con l’allora arcivescovo di Milano il cardinale gesuita Carlo Maria Martini, sul tema dell’Apocalisse di S. Giovanni.

Prima d’iniziare a parlare della filosofia di Popper, meglio nota come teoria del falsificazionismo, è necessario sgombrare il campo da alcuni malintesi, incongruenze o, se vogliamo, da alcune interessate mistificazioni che, iniziate alcuni decenni prima del Novecento e protrattesi per tutto il XX secolo fino ad arrivare ai nostri giorni, sono state portate avanti da quasi tutti i filosofi dell’epoca (quindi anche da Popper), i quali hanno cercato di contrabbandare il materialismo meccanicistico, figlio naturale del positivismo settecentesco, spacciandolo come  materialismo dialettico, figlio naturale dello sviluppo del pensiero scientifico moderno.

Karl Raimund Popper nasce a Vienna ove si laurea in filosofia nel 1928. Nel 1929 ottiene l’abilitazione all’insegnamento della matematica e della fisica nelle scuole secondarie inferiori. All’avvento del nazismo, Popper, che è di origine ebraica, si trasferisce in Nuova Zelanda. Alla fine della guerra si stabilisce in Inghilterra e insegna presso la London School of Economics, della quale è professore emerito fino alla morte, avvenuta nel 1994. Fra le sue opere principali ricordiamo: Logica della ricerca (1934), e in edizione ampliata col titolo Logica della scoperta scientifica (1959); Cos’è la dialettica? (1940); La società aperta e i suoi nemici (1945); Miseria dello storicismo (1944-1945); Congetture e confutazioni (1963); I due problemi fondamentali della teoria della conoscenza (1979); Il futuro è aperto (1985).

Pur essendosi formato a stretto contatto col Circolo di Vienna, Karl Popper non ne fece mai effettivamente parte. La sua prima opera La logica della scoperta scientifica del 1934, ne rappresenta una critica radicale. Tuttavia, Popper, rimase sotto l’influenza del Circolo, per il resto della sua vita. Uno dei punti fondamentali della sua filosofia è la critica al procedimento induttivo proprio delle scienze, in particolare della fisica. Egli fa proprio la critica che l’empirista Davide Hume svolge contro tale metodo, respingendo decisamente qualsiasi possibilità di pervenire, partendo dall’esperienza sensibile, a qualcosa che sia irriducibile ad essa: cioè alla materia. In Congetture e confutazioni del 1963 Popper scrive: «Mi accostai al problema dell’induzione attraverso Hume, pensai, aveva perfettamente ragione di ritenere che l’induzione non può essere giustificata logicamente». In altre parole è logicamente impossibile giustificare o verificare, una conclusione universale partendo dalla verifica di una somma finita di casi particolari. In Logica della scoperta scientifica afferma: «il resoconto di un’esperienza…o del risultato di un esperimento, può essere soltanto singolare e non un’asserzione generale» per cui segue che nessuna «legge scientifica» potrà essere basata sull’induzione.

Tuttavia, se nessun numero di esempi sperimentali confermanti la verità di una teoria, scientifica o non scientifica, solo un esempio contrario è sufficiente, invece, a dimostrare la sua falsità. E’ dunque la falsificabilità, conclude Popper, e non la verificabilità, costituisce il tratto caratteristico delle teorie scientifiche. Se queste conseguenze osservabili non risultano d’accordo con l’esperienza, la teoria viene falsificata e quindi abbandonata e buttata nella pattumiera della storia. Se invece questo accordo sussiste, la teoria è assunta soltanto provvisoriamente come vera, poiché può sempre venire confutata da controlli futuri. L’inadeguatezza di questo schema appare evidente nel momento in cui Popper parla della nascita delle nuove teorie, costruite per sostituire qualche teoria falsificata.  Queste nuove teorie – a suo giudizio –, non potendo scaturire dall’esperienza, nascono per così dire, da una specie di intuizione a la Bergson. Per spiegare la loro origine, la loro nascita, dice Popper, bisogna fare appello alla metafisica. Ciò è’ l’esatto contrario della tesi galileiana: «la scienza è figlia dell’esperienza». A questo carattere provvisorio e congetturale di tutte le ipotesi e teorie scientifiche, Popper, si è sempre mantenuto fedele in tutto l’arco della sua riflessione, anche quando, in successive riformulazioni delle sue idee, misconoscendo la dialettica del rapporto verità relativa – verità assoluta, ha sostenuto l’esistenza di una verità assoluta che costituisce la meta del cammino della scienza.

Molto acutamente fa osservare L. Geymonat che «Questa critica di Popper al principio di induzione mira in definitiva a negare che i risultati della osservazione empirica possano verificare le scoperte della scienza, commettendo l’errore di ritenere che per potersi qualificare come scientificamente verificata, una scoperta dovrebbe risultare assolutamente vera. L’alternativa: verità assoluta o assoluta non-verità non può che essere il portato delle sue concezioni metafisiche».

Se fosse possibile domandare a Popper: Chi fuor li maggior tui?, la risposta sarebbe inequivocabilmente sempre la stessa: Senofane (filosofo greco del VI  secolo a. c., fondatore della scuola eleatica), Platone(il primo e il più importante filosofo idealista della storia della filosofia),e, per li rami, fino al vescovo Berkeley (del quale Diderot dà la seguente definizione:«Si chiamano idealisti i filosofi che avendo coscienza soltanto della loro esistenza e dell’esistenza delle sensazioni che si succedono in loro, non ammettono nient’altro»), all’agnostico Hume ( per il quale il mondo è inconoscibile ), al filosofo Mach (per il quale gli atomi non son mai esistiti), allo storico della scienza Duhem ( e al suo tentativo di diminuire la fede nella scienza per aprire la via a quella dei valori religiosi), al filosofo convenzionalista e matematico Poincaré ( per il quale « I concetti di spazio e di tempo non ci sono dati o imposti dalla natura, ma siamo noi che li diamo alla natura…..tutto ciò che non è pensato è puro nulla».), ecc..ecc..Dunque, i suoi antenati appartengono tutti al grande filone delle filosofie idealistiche le quali lottano, ieri come oggi, attraverso le varie sfumature e diverse tendenze, da Senofane a Popper, contro la filosofia materialistica.

Che Popper sia un idealista e che la sua filosofia del fallibilismo ne sia una chiara e inequivocabile dimostrazione, appare in maniera inconfutabile nella sua teoria della conoscenza. La sua idea di fondo è che la conoscenza umana non è episteme (cioè non è sapere certo), ma doxa (cioè è sapere congetturale, è opinione degli uomini che sono ricercatori, non possessori di verità). È questa la tesi del fallibilismo, e il «fallibilismo non è nient’altro che il non-sapere socratico», secondo la concezione risalente, appunto, a Senofane.

Tuttavia, Popper, è molto scaltro nell’ignorare, sorvolare, mettere da parte il problema fondamentale di tutta la filosofia: «quello del rapporto – dice – Engels – del pensiero con l’essere, dello spirito con la natura». E accanto a questo problema Engels ne pone un altro, anch’esso fondamentale: «Quale relazione passa tra le nostre idee sul mondo che ci circonda e questo mondo stesso? E’ in grado il nostro pensiero di conoscere il mondo reale; possiamo noi nelle nostre rappresentazioni e nei nostri concetti del mondo reale avere una immagine fedele della realtà?». La risposta positiva a questi interrogativi la dà il materialista Albert Einstein quando dice: «La cosa più sorprendente del mondo è che esso è comprensibile». Ma a queste domande Popper non risponde, e con un doppio salto mortale all’indietro di parecchi millenni, ci rinvia al tempo di Senofane e di Platone.

La teoria della conoscenza dei Tre mondi di Popper si ispira alla teoria della conoscenza di Mach fondata su tre leggi distinte: quelle psicologiche, quelle fisiche e quelle psico-fisiche. Quella di Popper è costruita sui Tre mondi totalmente distinti:1) il primo mondo è quello degli oggetti fisici; 2) il secondo mondo è quello dei processi soggettivi di pensiero, cioè gli stati psicologici; 3) il terzo mondo è quello dei contenuti di pensiero.  In questa graduatoria il primo mondo, cioè il mondo della materia, il mondo delle cose reali, è del tutto irrilevante, perché riconducibile a quelli del terzo mondo. Anche gli elementi del secondo mondo son per lui irrilevanti perché trattano degli stati psicologici i quali non interferiscono con i problemi della conoscenza. Va da sé che Popper è interessato soltanto agli oggetti del terzo mondo quando dice: «Penso che il terzo mondo sia essenzialmente il prodotto della mente umana, siamo noi a creare gli oggetti del terzo mondo». A questo punto il gioco è fatto: la materia è scomparsa. Gli elementi del primo mondo perdono la loro materialità e si trasformano in pure collezioni di percezioni relativamente stabili, come direbbero i suoi maestri Mach e Hume. Infatti, in Ricerca sull’intelletto umano, Hume afferma: «La mente ha sempre presente a sé soltanto delle percezioni, e non può avere nessuna esperienza della loro connessione con gli oggetti. L’ipotesi di una tale connessione è perciò senza alcun fondamento razionale».

«Ciò costituisce – dice Geymonat – un punto dove appare più manifesta la totale incompatibilità fra la filosofia di Popper e il marxismo, che si rifiuta per principio di separare l’attività conoscitiva (delle scienze e dell’epistemologia) dal mondo in cui viviamo ed operiamo». Molti studiosi hanno attribuito a Popper il merito di essere stato il primo a vedere l’inscindibilità fra filosofia e scienza, dimenticando che, molto tempo prima di Popper, fu sostenuta dal grande matematico e storico delle scienze, l’italiano Federico Enriques, ancora prima da Federico Engels. Ed è strano che i meriti di Engels in questo campo vengono quasi sempre dimenticati, anche da studiosi marxisti.

I classici del marxismo non si limitano, tuttavia, a sottolineare l’importanza della storia della scienza intesa come sviluppo dialettico delle teorie scientifiche; essi affermano che la scienza non può venire compresa se non viene inserita nella dinamica generale del mondo naturale ed umano. Questa nuova e più ampia visione della storia della scienza permette al marxismo di fare una cosa che non rientra negli interessi di Popper: cioè di includere nella storia della scienza anche la storia della tecnica sulla base della tesi (fondamentale per il materialismo dialettico) dell’unità dialettica fra teoria e prassi. Essa getta un solido ponte tra lo sviluppo della scienza e quello della società, in quanto lo sviluppo della società è direttamente legato allo sviluppo dei mezzi di produzione, cioè appunto allo sviluppo della tecnica.

Ma veniamo all’ultimo argomento: quello della filosofia politica di Popper la quale è strettamente connessa con la sua teoria della conoscenza. A tale questione egli dedica il libro La società aperta e i suoi nemici, che si richiama al pensiero di Bergson: «Le società umane che storicamente si sono formate e si formano sono società chiuse, nelle quali l’individuo agisce unicamente come parte del tutto, e lasciano un margine minimo all’iniziativa e alla libertà. La società è fonte di obbligazioni morali. Ma accanto alla morale dell’obbligazione di una società chiusa, c’è la morale assoluta, quella dei santi del cristianesimo, dei saggi della Grecia, che è una morale di una società aperta. Questa morale non guarda ad un gruppo sociale, ma a tutta l’umanità. Essa è in movimento e tende al progresso». Popper fa sue queste vuote astrazioni bergsoniane e aggiunge che la società chiusa è un tipo di associazione che getta le sue radici originarie in un atteggiamento mitico-irrazionale e si fonda su una organizzazione di stampo «tribale…Una società chiusa assomiglia ad un gregge o a una tribù per il fatto che è un’unità semi – organica i cui membri sono tenuti insieme da vincoli». Per contro, la società aperta è un tipo di associazione che scaturisce da un atteggiamento razionale e critico che si forma sulla base di un’organizzazione protesa a salvaguardare la libertà degli individui. In definitiva, per Popper, una società chiusa ha i tratti di un regime illiberale, mentre una società aperta ha gli attributi di una «democrazia». Dopo di ciò, liberatosi da ogni legame terreno, Popper è libero di librarsi nei cieli eterei, e dar sfogo alla sua galoppante fantasia.

Va da sé che per Popper le società chiuse sono quelle comuniste, e quelle aperte sono le capitalistiche, che per definizione sono le “democratiche”.  Ma noi, dopo Lenin, siamo abituati a chiederci: «democrazia per chi?». Purtroppo a questa domanda Popper non può rispondere e non sa rispondere, nonostante che egli sia stato, ed è, uno dei più autorevoli difensori delle dottrine liberali. Ciò che anche qui manca, come già nelle sue indagini metodologiche, è un autentico interesse per la storia reale del mondo.

 Infatti, dice L. Geymonat, «Popper non basa la propria esaltazione della libertà politica su un raffronto accurato tra i regimi liberal-borghesi sorti in seguito alla grande Rivoluzione francese e i regimi precedenti (da quelli antichi retti su istituzioni schiavistiche, a quelli retti su istituzioni feudali, a quelli monarchico-assolutistici). Si limita invece a fare riferimento alle proprie esperienze personali; ecco, per esempio, ciò che scrive a proposito del primo viaggio in America da lui compiuto nel 1950: «l’America mi piacque fin dal primo istante, forse perché prima avevo qualche pregiudizio nei suoi confronti. Nel 1950 c’era un senso di libertà, di indipendenza personale, che non esisteva in Europa».

Naturalmente Popper evita di affrontare il problema del prezzo che gli altri popoli hanno pagato al fine di permettere agli americani la libertà da lui tanto amata.  Così come evita di analizzare la storia delle società concretamente, attraverso lotte, guerre e rivoluzioni.  Egli non nutre nessun dubbio nel dare i canoni fondamenti della sua filosofia politica, nonostante le roboanti dichiarazioni, in sede di teoria della conoscenza, circa il fallibilismo e la rivedibilità di ogni teoria. Essi sono, per Popper, assolutamente certi: 1) il regime politico libero per eccellenza è quello liberal-borghese; 2) «noi dovremmo sempre vivere in una società imperfetta».

In altre parole, il regime liberal-borghese, anche se non è mai perfettamente realizzato, è il modello ideale alla cui stregua giudicare gli altri. E cosa accadrà se un regime liberal-borghese andrà a sfociare in una dittatura? In analogia con quanto sostenuto da Popper in teoria della conoscenza, dovremmo concludere che tale regime dovrà venire sostituito da un altro, ancora liberale, ma più perfetto del precedente. Ma non è così. Egli introduce a questo punto un fattore ad hoc, che non trova l’equivalente nelle sue ricerche epistemologiche, ma che dimostra la sua grande paura per le sostituzioni di regime che avvengono in maniera troppo rapida, cioè in maniera rivoluzionaria. Fedele agli insegnamenti dei due più grandi revisionisti socialdemocratici della storia europea, Edward Bernstein e Karl Kautsky, Popper sostiene il metodo step-by-step gradualista, poiché «La violenza genera sempre maggiore violenza. E le rivoluzioni violente uccidono i rivoluzionari e corrompono i loro ideali…Così fu nella rivoluzione inglese del XVII secolo, che portò alla dittatura di Cromwell; nella Rivoluzione francese, che portò a Robespierre e a Napoleone; e nella Rivoluzione russa, che ha portato a Stalin».

Per concludere, già lo sappiamo, Popper ignora la storia o forse non ricorda che sia Cromwell che Robespierre furono i capi di grandi movimenti rivoluzionari di carattere liberal-borghese. Per quanto riguarda la Russia fu Lenin e il suo gruppo dirigente a guidare la grande rivoluzione d’ Ottobre del 1917: un’alleanza tra il proletariato (la nuova classe in ascesa) e i contadini russi per l’abbattimento della odiata e insanguinata monarchia dei Romanov e dei privilegi del clero.

Qui Popper ha superato sé stesso in quanto a fallibilismo scientifico e a falsificazionismo storico. Con la condanna delle tre più grandi rivoluzioni della storia: quella inglese, quella francese e quella russa, che hanno aperto all’umanità la via dello sviluppo e della scienza moderna, appare manifesto il suo più totale disinteresse per la storia. Ma lui non se ne duole. Lui lavora sulla base delle sue esperienze personali, le quali proverebbero, al di sopra di ogni dubbio e in maniera assoluta, checché ne dica Senofane, che ogni movimento rivoluzionario non possa che concludersi se non con una dittatura. Di qui la necessità di combattere senza quartiere il comunismo, come lo scienziato combatte tenacemente le teorie rivelatesi false.

«Non possiamo pertanto stupirci – dice L.Geymonat – se Popper fu, negli anni del secondo dopoguerra, eletto al rango di filosofo ufficiale dell’anticomunismo: filosofo tanto più autorevole in quanto più famoso nell’ambito dell’epistemologia. E nemmeno possiamo stupirci se divenne il filosofo dei regimi socialdemocratici, in quanto questi si sono trasformati nei più fedeli difensori del moderatismo e del conservatorismo del sistema capitalistico».

Teramo settembre 2020

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