ARTICOLI

MAO ZEDONG GRANDE POETA E GRANDE RIVOLUZIONARIO CINESE di Maurizio Nocera

Sono passati 127 anni dalla nascita del presidente Mao Zedong (Shaoshan/Cina, 26 dicembre 1893 – Pechino, 9 settembre 1976) e 44 dalla sua morte. Una vita lunga la sua, gonfia di date, che hanno avuto un’enorme influenza sull’intero mondo. In tutto il Novecento non c’è stata una personalità così grande che l’abbia eguagliato. In ogni angolo della Terra, nel bene o nel male, non c’è stata casa in cui non ci sia stata (tuttora lo è) un’immagine o un libro che lo ricordi. Tanto grande è stata la sua influenza sul pianeta che non si sbaglia quando si afferma che il XX secolo è stato quello della Repubblica Popolare Cinese e dell’uomo che l’ha fondata, Mao Zedong.

Se oggi la Cina è quello che è, cioè uno Stato socialista a guida comunista, è perché, a partire dal 1949, anno di fondazione della Repubblica Popolare, essa è stata governata dalla lungimirante politica di un gruppo dirigente che da Mao, passando poi per Ciu En-lai e Deng Xiaoping, per arrivare all’oggi del presidente Xi Jinping, è stato impegnato a elevare il benessere materiale e spirituale del proprio popolo, nel rispetto reciproco anche degli interessi di tutti gli altri popoli del pianeta. In Cina il governo si fonda su leggi concrete e popolari e su un sistema giuridico che condanna e persegue la corruzione, condanna qualsiasi tipo di arbitrio e persegue qualsiasi atto teso al potere personale. Il governo cinese agisce mirando allo sviluppo scientifico della società e oggi dà ampia prova di ciò per come sta affrontando la pandemia di Covid-19.

È stato soprattutto il presidente Mao Zedong a dare la giusta guida al grande Paese dalla millenaria storia sin dal lontano 1921, anno della fondazione (1° luglio) del Partito comunista cinese, sezione della Terza Internazionale. Era l’estate di quell’anno, quando:

            «nella seconda quindicina di giugno, tredici [12 per l’esattezza] persone si presentarono alla scuola femminile di via Pubalu sul territorio della concessione francese di Sciangai. Si installarono al secondo piano. Nella scuola non c’era nessuno: gli insegnanti e gli alunni [o alunne] erano partiti/[e] per le vacanze. Queste [dodici] persone erano i rappresentanti dei circoli comunisti delle diverse regioni della Cina che erano convenute a Sciangai per organizzare ufficialmente il Partito comunista cinese. Il Congresso lavorò quattro giorni dando luogo a discussioni accese sulla linea del partito e i principi dell’organizzazione. […] Fra essi si distingueva un uomo magro e alto rispetto alla statura media dei cinesi, il quale indicò subito ai suoi compagni i pericoli delle impostazioni politiche [sbagliate]. Leggermente curvo, la testa di una capigliatura nerissima, aveva gli occhi febbrili e maliziosi del letterato cinese. Il suo aspetto generale era calmo e severo. Egli si distingueva dagli altri per un estremo pallore del viso. Si presentò ai suoi compagni con queste parole: “Compagni, disse, sono un delegato dell’Hunan, dove ho fondato un’organizzazione comunista. […] Le parole del delegato della provincia dell’Hunan furono accolte con vivi applausi dalla maggioranza dei delegati presenti. Quell’uomo era Mao Zedong» (v. Guerra di liberazione in Cina, Edizioni di Cultura Sociale, Tip. Chillemi, Roma 1950, pp. 3-5).  

Lo stesso Mao ricorda il momento della fondazione del partito in un opuscolo mai citato nelle fonti che riguardano la vita e l’opera del rivoluzionario cinese. In La mia vita (Edizioni di Cultura Sociale, Roma 1951) scrive:

            «Nel maggio 1921 andai a Sciangai ed assistetti alla riunione in cui venne fondato il Partito comunista. [… Allora] ero assistente bibliotecario all’Università nazionale di Pechino, mi ero andato formando rapidamente una coscienza marxista. […] Eravamo in dodici. Nell’ottobre seguente fu organizzata a Hunan la prima sezione provinciale del Partito comunista, ed io entrai a farne parte. [… Nel] 1922 si riunì a Sciangai il II Congresso del partito. […] Il III Congresso si tenne a Canton nel 1923: fu presa la storica decisione di entrare nel Comintern, di cooperare con esso e di creare un fronte unito contro i militaristi del nord. Mi recai a Sciangai per lavorare nel Comitato centrale del Partito. Nella primavera successiva tornai a Canton per occuparmi del I Congresso nazionale del Comintern. Di ritorno a Sciangai, nel marzo, riuscii ad organizzare il mio duplice lavoro di membro dell’Esecutivo del Partito comunista e del Comintern a Sciangai. […] Nell’inverno seguente tornai nell’Hunan per riposare: a Sciangai infatti mi ero ammalato. Nell’Hunan, comunque, organizzai il primo nucleo del grande movimento dei contadini in quella provincia. […] Lasciai la mia casa, dove mi ero recato per riposare, e cominciai una campagna di organizzazione tra i contadini, scatenando le ire dei latifondisti che richiesero il mio arresto. […] Scrivevo moltissimo, pure avendo delle responsabilità specifiche per il lavoro dei contadini nel Partito. Sulla base dei miei studi e del mio lavoro di organizzazione dei contadini dell’Hunan scrissi due opuscoli, uno intitolato Analisi delle classi nella società cinese e l’altro La base di classe di Ciao Heng-t’i ed i compiti che ci attendono. […] Continuai a lavorare nel Comintern di Canton fin quasi al momento in cui Ciang Kai-scek tentò il suo primo colpo di stato nel marzo 1926. […] A Sciangai diressi l’azione del Partito comunista nelle campagne e fui mandato nell’Hunan come ispettore del movimento contadino. Intanto, sotto l’insegna del Fronte Unito del Comintern e del Partito comunista, cominciò, nell’autunno del 1926, la storica spedizione del nord. […] Al principio della primavera seguente, quando andai a Uhan, vi si tenne un congresso interprovinciale di contadini: io vi presi parte e discussi la mia tesi che prospettava una completa ripartizione della terra. A questo congresso presero parte tra gli altri P’eng Pai, Fang Ci-min e due membri del partito bolscevico dell’Urss, Jork e Volen./ Si stabilì di presentare al V Congresso del Partito comunista una mozione nella quale si adottava la mia proposta. Ma il Comitato centrale la respinse. Quando nel maggio del 1927 fu convocato a Uhan il V Congresso, il Partito era ancora diretto da Cen Du-siu. […] Io non ero affatto soddisfatto della politica del Partito, specialmente per ciò che riguardava il movimento dei contadini. Oggi penso che se il movimento contadino fosse stato allora meglio organizzato e armato per una lotta di classe contro i proprietari terrieri, i soviet avrebbero avuto uno sviluppo assai più rapido e possente in tutto il paese. Ma Cen Du-siu fu nettamente sfavorevole. […] Dopo il Congresso, fu costituita un’Unione dei Contadini di tutta la Cina, ed io ne divenni il primo presidente.» (v. Op. cit., pp. 59, 61, 62, 64-67).

Da quel momento Mao Zedong cominciò a dirigere le forze patriottiche rivoluzionarie che, dopo una guerra di liberazione infinita, riuscirono a liberare il Paese prima dalle orde barbariche colonialiste (europee e statunitensi) che sostenevano il Kuomintang, poi dagli occupanti imperialisti giapponesi. Una delle date fatidiche della lunga guerra patriottica fu quella del 10 novembre 1934. Accadde che

            «Ciang Kai-scek occupa Gutsin, la capitale della Cina sovietica. Le forze di Mao Zedong allora si raccolgono e organizzano la loro ormai leggendaria Lunga Marcia. Si forma una colonna di centomila uomini in cui è inquadrata, accanto alla truppa, una folla enorme di donne, di vecchi e di bambini, che vogliono partire e raggiungere la provincia dello Scensi, dove operano altre forze di rivoluzionari cinesi. […] La Lunga Marcia rappresentò una vasta e profonda esperienza del Partito comunista, una esperienza che trasformò in eroi leggendari tutti i soldati dell’Armata Rossa. La storia della Lunga Marcia venne cantata da Mao Zedong con versi che vengono ritenuti tra i migliori della poesia moderna cinese. Riportiamo due delle poesie scritte da Mao nei giorni più duri della marcia: 1. Il cielo è alto, le nuvole si stemperano./ Io guardo verso il Sud le oche selvagge che spariscono all’orizzonte./ Io conto sulle dita una distanza di ventimila li [un li cinese equivale a 500 metri]./ Io dico: non siamo eroi se non raggiungiamo la Grande Muraglia./ Sto sulla cima più alta delle Sei Montagne./ E la bandiera rossa sventola al vento dell’Occidente./ Io dico: non siamo eroi se non raggiungiamo la Grande Muraglia./ Con una lunga corda tra le mani/ Penso a quando legheremo il mostro.// 2. Nessuno nell’esercito rosso temeva le fatiche della Lunga Marcia. Guardavano leggeri le mille cime e di diecimila fiumi,/ E le Cinque Montagne che sorgevano e ricadevano come onde increspate,/ E i Monti Wuliang che non erano più che piccoli sassi verdi/ E i ripidi abissi caldi quando il fiume Sabbia d’Oro si precipita dentro,/ E i ponti sul fiume Tatu, freddi con le catene di ferro./ Deliziate nelle migliaia di pieghe nevose del monte Min/ Vinto l’ultimo passo, le tre armate sorrisero» (v. Guerra di liberazione in Cina, Op. cit., pp. 28 e 32).

Un altro ricordo importante della Lunga Marcia lo scrisse direttamente Mao Zedong nel suo libro La mia vita citata. Questo:

            «Verso gennaio 1935, il grosso delle forze dell’Esercito Rosso raggiunse Tsuen Yi, nel Kueiciu. Nei quattro mesi seguenti l’Esercito fu costantemente in movimento, ed ebbero luogo violenti scontri e combattimenti. Superando enormi difficoltà, attraversando i più lunghi, profondi e pericolosi fiumi della Cina, valicando alcuni dei più alti e impervi passi montani, attraverso deserte praterie e paesi abitati da popolazioni selvagge, col freddo più intenso e con la canicola più bruciante, con la pioggia, la neve e la tempesta, inseguiti dagli eserciti controrivoluzionari della Cina, superando tutti questi ostacoli naturali, e aprendosi la via in lotta con le guarnigioni del Kuangtung, dell’Hunan, del Kuang-si, del Kueiciu, dello Yunan, dei Sikiang, del Szeciuan, del Kansu, e dello Scensi, l’Esercito Rosso raggiunse finalmente lo Scensi settentrionale, nell’ottobre 1935, e si stabilì nella parte nord-occidentale della Cina./ La vittoriosa marcia dell’Esercito Rosso, ed il suo arrivo trionfale nel Kansu e nello Scensi con le sue forze principali ancora intatte, fu dovuta innanzi tutto alla giusta guida del Partito comunista ed, in secondo luogo, alla grande capacità, al coraggio alla decisione ed alla resistenza quasi sovraumana, all’ardore rivoluzionario dei quadri di base dei lavoratori della zone sovietiche./ Il Partito comunista cinese fu, è, e sarà sempre fedele al marxismo-leninismo, e continuerà sempre a lottare contro ogni tendenza opportunista. Questa è una delle ragioni della sua invincibilità e della sua certezza nella vittoria» (v. Op. cit., pp. 96-97).

Quello che c’è di interessante in questo libro (La mia vita) di Mao Zedong è anche la Prefazione di Gabriele De Rosa (Castellammare di Stabia, 1917 – Roma, 2009), cioè di uno storico del movimento cattolico, che diventerà poi un democristiano a tutto tondo (fu presidente dell’Istituto L. Sturzo e senatore e deputato della Dc), ma che in questo suo testo fa delle affermazioni che nessuno avrebbe mai pensato di leggere. Queste:

            «Leggere la vita di Mao Zedong significa scorrere le pagine più belle della storia stessa della Cina moderna, la storia delle lotte combattute dal suo popolo dalla rivoluzione borghese di Sun Yat-sen alla Comune di Canton, alla Lunga Marcia, sino alla guerra antinipponica e contro la cricca reazionaria e antinazionale. Leggere la vita di Mao Zedong significa conoscere la storia del Partito comunista cinese, dal giorno della sua fondazione nel giugno del 1921 fino al 1935, dal giorno della sua adesione al Comintern fino al tradimento di Cen Du-siu e all’affermarsi del partito come l’unica forza di guida, nazionale e popolare, della rivoluzione cinese. Leggere infine la vita di Mao Zedong significa conoscere la storia del tradimento graduale operato da Ciang Kai-scek degli ideali nella lotta stessa combattuta dal Partito comunista cinese. Tutto ciò invita a una attenta lettura della vita di Mao Zedong, una vita dura e di forti sacrifici, ricchissima di grandi esperienze, di momenti tragici che misero alla prova non solo l’esistenza di Mao Zedong, ma le sorti stesse della rivoluzione. Eppure anche quando sembrava che tutto dovesse congiurare contro di lui, anche quando sembrava che Ciang Kai-scek dovesse avere partita vinta, come nei giorni più gravi della Lunga Marcia, Mao mantenne intatta la certezza della sua vittoria: “Con una lunga corda tra le mani – penso a quando legheremo il mostro” – così scriveva allora il poeta Mao Zedong» (v. Mao Zedong, La mia vita, Op. cit., pp. 5-6).

 

Sono stati in tanti gli italiani che, negli ultimi 71 anni, hanno avuto l’occasione di andare in Cina. Qualcuno con un atteggiamento di diffidenza se non proprio di contrarietà al sistema del comunismo cinese (e sono in tanti), oppure di comprensione nei confronti del grande Paese asiatico dalla millenaria storia e spesso, a volte, di attenzione e difesa del comunismo cinese e persino dello stesso presidente Mao. È il caso della sinologa Enrica Collotti Pischel (Rovereto, 1930 – Milano, 2003), che tutta la vita ha dedicato alla Cina. Il suo primo viaggio (successivamente ne fece molti altri) risale agli inizi degli anni ’60 e di ciò ha lasciato sempre una traccia. Onesta e corretta è la sua prima pubblicazione – I protagonisti della Storia Universale: Mao Zedong (Compagnia Edizioni Internazionali, Milano 1965) -, contenente una delle prime in Italia Cronologia del presidente Mao. In esso il penultimo capitolo è dedicato a Il «presidente Mao». Scrive a proposito del «Congresso nazionale dei soviet cinesi [fine 1931 a Juichin], e dice:

            «Quel Congresso votò una Costituzione, una legge agraria, una legge sul lavoro e molti altri testi che cercavano di abbozzare il volto della Cina di domani. Ed elesse Mao Zedong presidente della Cina sovietica: da allora egli sarebbe rimasto sempre “il presidente Mao”» (v. Op. cit., p. 219).

Molto bello è anche l’ultimo capitolo, in cui Collotti Pischel scrive:

            «il 1° ottobre 1949, in una sala del palazzo imperiale di Pechino, dopo aver percorso e conosciuto palmo a palmo tutta la Cina come avevano fatto soltanto i capi vittoriosi delle antiche rivolte, Mao Zedong proclamava la Repubblica popolare cinese e ne diveniva il presidente. Mentre in tutto il Paese, i contadini si prendevano la terra attesa ed agognata da secoli ed alla sera bruciavano in grandi falò i titoli di possesso dei proprietari, le ricevute dei debite, gli impegni per le corvées ed i catasti feudali, Mao ed i suoi si trovavano a detenere quel potere politico sullo Stato, del quale avevano compreso fin dal 1927 il carattere decisivo in un Paese come la Cina. La lunga ricerca di una via che potesse dare una soluzione ai problemi posti dalla dominazione straniera sulla Cina e a quelli anche più antichi e profondi lasciati in retaggio dalla vecchia società, si era conclusa, così come si era concluso il lungo e difficile sforzo per portare al successo, contro tanti nemici interni ed internazionali, quella soluzione. E infatti, attorno a Mao e a coloro che avevano percorso la rischiosa carriera dei militanti comunisti, si trovavano, nell’ora del trionfo, molti altri uomini che avevano sperato la salvezza della Cina da meno drammatiche scelte – nazionalisti avanzati, democratici radicali, riformatori moderati ma sinceri: erano stati attratti nell’alleanza con i comunisti dalla capacità da questi dimostrata di svolgere veramente una funzione “nazionale”. Il potere era raggiunto ma, per adempiere al compito di ridare al popolo cinese la prosperità, di garantire la “salvezza della Cina” a lunga scadenza, si era ancora, e Mao lo ripeteva continuamente, all’inizio di una nuova, più dura “lunga marcia”. Subito fu intrapreso quindi lo sforzo per trasformare i mutamenti sociali avvenuti nelle campagne in un fattore per l’aumento della produzione agricola, dalla quale dipendeva la sopravvivenza della Cina. […] In tutti gli eventi che si verificarono da quel momento in poi, Mao è sempre rimasto legato all’aspetto più specifico della sua esperienza, alla convinzione cioè che le sorti della Cina si decidono alle radici della Cina, nelle vaste regioni agricole» (v. Op. cit., 222-224).

Pure significativa è la sua conclusione:

            «Nelle occasioni solenni [il] gruppo di uomini che ha fatto compiere la rivoluzione alle masse più vaste della storia, sale sugli spalti rossi dell’antico palazzo imperiale di Pechino. Nessuno ha meno di sessant’anni: tutti hanno letto gli appelli di “gioventù nuova”, hanno visto sventolare le bandiere del “4 Maggio” e accendersi il grande incendio dell’Ottobre russo; hanno cercato la vittoria della Rivoluzione cinese nelle città industriali e poi l’hanno perseguita a lungo, duramente, con pazienza, nelle campagne e sulle montagne, nelle paludi del Sud e nelle grotte di Yenan; hanno dovuto modificare l’ideologia che li aveva affascinati per renderla adatta al loro Paese, hanno dovuto accogliere e respingere gli esempi venuti dall’Urss. E non hanno finito ancora la loro strada, anche se ogni anno il gruppo è più ridotto, per l’erosione inesorabile del tempo. Al centro, settantenne, Mao Zedong, con la testa alzata un poco – come sempre – verso il sole, saluta con la mano le schiere di giovani ben ordinati che gli augurano […] Wan Shui (diecimila anni), levando verso di lui fiori di carta variopinti e delicati. E forse il vecchio rivoluzionario non invidia i ragazzi di questa generazione che non sapranno mai di quante contraddizioni, di quali atroci alternative, di quante tragedie, ma anche di quante insperate scoperte, di quali esaltanti vittorie sia stata intessuta la vita di coloro che, nei libri e sulle montagne, cercarono la via per la Rivoluzione cinese. E la trovarono» (v. Op. cit., p. 224).

Qualche anno dopo, la Collotti Pischel intervenne nuovamente sulla figura del presidente Mao. Lo fece in una lunga introduzione al libro La lunga vita di Mao Zedong (Gabriele Mazzotta editore, 1973) a cura di Franca Pizzini. Si tratta della riproposizione di alcuni testi di Mao, che la Collotti Pischel avverte che:

            «preparare, ma anche presentare, una raccolta di testi di Mao è un’impresa assai ardua o, per essere più esatti, rischiosa: il pericolo consiste nell’adottare come asse della propria scelta uno ed uno solo dei molti punti di vista che sono necessari, non soltanto per rendere in tutta la sua completezza e multiformità il contributo di pensiero dato da Mao, ma anche per individuarne le caratteristiche unitarie fondamentali, per evitare fraintendimenti che, nel caso di una personalità come quella di Mao, sono estremamente facili quando ci si limiti ad un’analisi parziale. Un Mao limitato, un Mao parziale, un Mao settoriale è un Mao falso. […] Questo richiamo alla necessità di collocare il pensiero di Mao in rapporto all’azione di Mao e il suo operato complessivo in rapporto con la realtà della rivoluzione cinese non deve essere interpretato come un tentativo di “ridurre” Mao, di costringere il contributo generale da lui dato all’ideologia marxista ed alla problematica rivoluzionaria entro i limiti “angusti” di un’esperienza unica e irripetibile […] e per di più di un’esperienza caratterizzata dalle condizioni di sottosviluppo della Cina. […] Mao è stato tuttavia influenzato, in modo decisivo nella sua formazione, nel suo pensiero e nell’azione, dalla tradizione rivoluzionaria occidentale, cioè dal grande movimento di pensiero che va dall’Illuminismo, attraverso il democratismo rivoluzionario dei giacobini, al complesso del movimento socialista ottocentesco, a Marx e a Lenin. […] Bisogna dunque concludere che Mao non ha voluto nelle sue opere – ed in particolare nelle sue opere ufficiali – rendere palese il contesto culturale che sta alle spalle della formazione della sua personalità intellettuale e della sua stessa linea strategica. È possibile che ci sia in questa scelta un’espressione – una delle molte del resto – del suo fondamentale anti-intellettualismo, vale a dire del suo rifiuto di indentificare il “sapere” con quanto è scritto nei libri e la precisa scelta di utilizzare invece quello che in senso generale si può definire come “cultura” in funzione strumentale. Il pensiero anche rivoluzionario precedente, lo stesso contributo di Marx, Engels, Lenin (e Stalin se si vuole) non serve a dare indicazioni di soluzioni: perché le soluzioni ai problemi effettivi devono essere trovate affrontando direttamente la realtà nel quadro dell’azione rivoluzionaria che non può essere individuale ma sociale e corale. […] È difficile raccogliere le opere di Mao in modo da dare un’immagine precisa di colui che è certamente uno dei maggiori uomini del nostro secolo. […] Raccogliere e pubblicare le opere di Mao significa letteralmente ripercorrere e riscrivere la storia della Cina contemporanea. E la stessa storia del passato – si sa – la si scrive sempre e solo per esigenze del presente, in vista del futuro» (v. Op. cit., pp. I, III, IX, XI e XXVI-XXVII).  

Si diceva prima dell’onestà intellettuale della Collotti Pischel che, nel 1996, in occasione del Ventennale della morte di Mao, quando tutta la canea anti-maoista si accaniva contro il comunismo cinese, lei ebbe il coraggio di affermare che:

            «Oggi è frequente una visione demonizzante della persona e dell’opera di Mao, quasi che egli e il suo tempo siano stati una parentesi mostruosa nella storia della Cina: ad accreditare questa visione sono soprattutto gli intellettuali cinesi portati a una dissidenza più o meno aperta dal lungo e doloroso scontro con la scelta di Mao di assegnare il primato alle idee delle mitizzate “masse rurali”. Né vi sono dubbi sul fatto che i valori oggi conclamati in Cina – l’arricchimento e il profitto – siano opposti a quelli che Mao affermava, cioè l’appagamento dei bisogni indispensabili “dei più”. Eppure non solo le autorità cinesi ma anche gli storici sembrano convinti che il retaggio di Mao non possa essere negato: le trasformazioni volute dal leader cinese, rompendo i vincoli del passato, hanno contribuito a creare alcune condizioni dello slancio attuale. Ma soprattutto non può essere negato il successo di quello che fu per tutta la vita il vero motivo ispiratore di Mao: l’esigenza di riportare la Cina all’unità, all’indipendenza, alla sovranità, al rispetto internazionale, a quella grandezza che egli ritenne dovesse essere riconosciuta alla nazione cinese. Sotto Mao la Cina conobbe grandi tragedie sociali e politiche, non la frattura dell’unità o l’insulto alla sua sovranità e alla sua identità. La nuova società più ricca potrà essere altrettanto solida?» (v. «la Repubblica», 9 settembre 1996, p. 21).   

 

Nello 1965 fu pubblicato in Italia il libro della giornalista statunitense Anna Louise Strong, Lettere dalla Cina (Edizioni Oriente, Milano), tradotto da Grazia Cherchi e Vittorio De Tassis. Interessante è la lettera del 30 luglio 1963. In essa la nota scrittrice scrive:

            «Cari amici,// esattamente quattro giorni fa, rientrando a Pechino dalla Conferenza Bilaterale di Mosca, definita “fallimentare” dagli Occidentali, i delegati del Partito comunista cinese si sono visti accogliere all’aeroporto da una manifestazione fra le più entusiastiche che si siano avute da queste parti. A cominciare da Mao Zedong, tutti i massimi rappresentanti del governo, del partito, del sindacato e delle organizzazioni di classe erano là ad attenderli: un totale di circa 5.000 persone, con fanfare e bandiere./ È raro che Mao compaia in pubblico: questa è la prima volta che viene all’aeroporto da quando, nel ’61, vi accolse il premier Chou En-lai che ritornava dal XXII° Congresso del Pcus nel corso del quale aveva manifestato il proprio dissenso in merito all’attacco di Kruscev contro l’Albania. Senza alcuna formalità Mao s’è fatto sotto l’aereo per stringere la mano ai delegati via via che scendevano la scaletta, poi ha fatto lo stesso con tutti i membri dell’equipaggio, che erano cittadini sovietici. Infine s’è messo a girare liberamente tra la folla, rispondendo ai saluti tra il clamore dei tamburi, dei cembali e delle acclamazioni. Era come se si stesse celebrando un trionfo. In realtà lo era e, a dimostrarlo, sarebbe bastata la presenza all’aeroporto dei rappresentanti delle Ambasciate di tutti i paesi socialisti, dall’Urss a Cuba, compresi gli Stati dell’Europa Orientale così come i tre piccoli stati asiatici che confinano con la Cina, la Mongolia, la Corea e il Vietnam. Ancora più esplicitamente lo dicevano le scritte sugli striscioni e sulle bandiere, tutte di questo tenore: “Viva la Grande Unità dei popoli dell’Urss e della Cina!”; “Viva la Grande Unità del mondo socialista e il Movimento Comunista Internazionale!”; “Perseverare nella fedeltà ai principi, eliminare i dissensi, rafforzare l’unità e l’organizzazione della lotta comune contro il nemico!”; “Avanti nella difesa della pace mondiale!”» (v. Op. cit., pp. 163-164). 

In quegli stessi anni (1967), si recò in Cina anche Alberto Moravia, pseudonimo di Alberto Pincherle (Roma, 1907-1990). Andò per conto del «Corriere della Sera». I suoi reportage divennero poi un libro – La rivoluzione culturale in Cina ovvero il convitato di pietra (Bompiani, 1967). Ciò che egli capì di quel difficile periodo è sintetizzato in una mezza pagina del libro. Questa:

            «C’è in Cina una lotta politica di specie religiosa; ma sul terreno di una fondamentale unità politica e istituzionale. Il dibattito poi verte su un punto molto semplice, anche se importantissimo: è più ortodosso il sistema russo della direzione partitica dall’alto o quello maoista della direzione delle masse dal basso? Ecco tutto. Qualcuno, adesso, si domanda: perché Mao, che ne ha la possibilità, non fa arrestare i propri oppositori (a cominciare da Liu Sciao-sci) e non li fa processare e fucilare, come avrebbe fatto Stalin? Ma Mao non è Stalin. Mao non vuole il potere personale attraverso la violenza, come Stalin. Mao l’educatore, Mao il dialettico, vuole il potere ideologico attraverso la persuasione e l’educazione. Così egli non desidera che Liu Sciao-sci sia ucciso bensì che cambi idea, cioè che si riconosca eretico e abiuri l’eresia» (v. Op. cit., p. 96).

Un altro scrittore che, appena subito dopo Moravia, visitò la Cina popolare fu Alberto Jacoviello (Lavello, 1920 – Roma, 1996). Si recò in due date differenti. Nell’autunno 1970, il cui reportage fu pubblicato dalla casa editrice Jaca Book col titolo Capire la Cina (1972). Un paragrafo di questo libro è dedicato a Mao, dove egli si chiede se Mao «è [un] intoccabile?», e delinea quelli che sono stati gli ulteriori tentativi di «liquidarlo o almeno rendere sterile la sua funzione di massimo dirigente». Scrive:

            «è assai difficile oggi cogliere nella società cinese dei sintomi di attacco di massa alla direzione di Mao. Ma ciò è dovuto, come si comprende facilmente, all’enorme patrimonio di prestigio accumulato da Mao durante quasi mezzo secolo di direzione del Partito comunista cinese e della costruzione della nuova Cina. Per la stragrande maggioranza del popolo cinese Mao è l’artefice di tutto quel che ha profondamente cambiato il volto della Cina. Di qui l’attaccamento profondo dei cinesi al loro presidente, a un uomo, cioè, che li ha sempre guidati lungo una strada che si è rivelata quella giusta. Di qui anche evidente [è] la posizione particolare del presidente Mao rispetto non solo a tutti i membri del Partito comunista ma anche agli altri dirigenti di grande prestigio. […] La capacità di Mao si è rivelata certamente straordinaria, come dimostra appunto tutta la storia del Partito comunista cinese. In più – e forse in questo egli è un esempio unico – Mao ha avuto la forza di saper ricorrere direttamente alle masse quando i problemi non avrebbero potuto essere risolti altrimenti. Sotto questo profilo, come sotto molti altri, del resto, la rivoluzione culturale, che costituisce lo sviluppo più esteso della “linea di massa” rappresenta, quali che possano essere gli sviluppi futuri della situazione in Cina, un fatto completamente nuovo nella storia del proletariato al potere. E questa capacità di Mao di ricorrere a una sorta di appello diretto alle masse non è certo l’ultima delle ragioni che ne fanno il capo praticamente indiscusso della Cina» (v. Op. cit., pp. 24-25).

Jacoviello ritornò in Cina nell’autunno 1972, il cui reportage fu pubblicato nel 1973 dalla stessa casa editrice col titolo In Cina due anni dopo. In esso, egli coglie come massimo interesse la raccomandazione che il Partito comunista cinese fa al popolo di leggere non più il Libretto rosso di Mao, ma alcuni classici del marxismo più cinque saggi del presidente Mao Zedong. Scrive:

            «Le opere dei classici del marxismo non sono state ovviamente scelte a caso. Si tratta di opere che insegnano da una parte a combattere l’idealismo e dall’altra a comprendere quanto lungo e complesso sia il processo di smantellamento dello Stato borghese e di liquidazione dell’ideologia borghese. In quanto ai cinque saggi filosofici del presidente Mao, l’asse fondamentale attorno a cui ruotano è la lotta di classe nella società socialista e il processo di ricostruzione del massimo di unità dopo il massimo di lacerazione nella lotta contro ogni tipo di deviazione» (v. Op. cit., p. 12).

Appena un anno e mezzo dopo Jacoviello, si recò in Cina lo scrittore, per tanti versi ammiratore della Cina popolare, Davide Lajolo (Vinchio, 1912 – Milano, 1984) che, nel libro I Rossi (Rizzoli, 1974), scrive:

            «Il momento culminante fu quello del colloquio con Mao. […] “Lasciate che cento fiori sboccino e mille scuole fioriscano”. Era quel tempo. Mao stava al centro della costruzione della nuova società. Dal tempo della lunga marcia, quado scriveva poesie e divideva la montagna in tre parti anticipando fin d’allora la necessità della pacifica coesistenza, erano passati due decenni. […] Mao, mentre era ancora in guerra, già cantava l’armonia del mondo, io cercavo di scoprire in lui l’armonia dell’uomo. […] Prima di rispondere alle domande ogni volta fissava lontano, sorrideva, poi riprendeva pacatamente a parlare. […] Quando il colloquio dovette avere termine fu per me come quando si è costretti a interrompere un momento magico che non tornerà più» (Op. cit., p. 29-31).

Tutte queste testimonianze di scrittori e giornalisti occidentali mostrano l’attaccamento di Mao Zedong nei confronti delle masse lavoratrici cinesi sempre coerente e di lungo respiro. Già nel marzo 1927, nel suo Rapporto d’inchiesta sul movimento contadino nell’Hunan, diede grande importanza a tale questione:

            «Durante la mia recente visita nell’Hunan, ho condotto sul posto un’inchiesta sulla situazione di cinque distretti: Hsiangtan, Hsianghsiang, Hengshian, Liling e Changsha – dal 4 gennaio al 5 febbraio – ho convocato nei villaggi e nei capoluoghi di distretto riunioni d’inchiesta con contadini dotati di esperienza e con compagni che lavorano nel movimento contadino, ho ascoltato con attenzione i loro rapporti, e ciò mi ha permesso di raccogliere una grande quantità di materiale. Molte cose de movimento contadino sono apparse in pieno contrasto con quanto ebbi a udire dai signorotti di Hankow e Changsha. Ho visto e ascoltato cose sorprendenti, che prima non mi era mai capitato né di vedere né di sentire. […] Si deve far cessare al più presto qualsiasi discorso contro il movimento contadino. Si devono immediatamente correggere tutte le misure erronee prese dalle autorità rivoluzionarie nei riguardi di questo movimento. Soltanto così sarà possibile contribuire all’ulteriore sviluppo della rivoluzione» (v. Mao Zedong, Sul partito, Edizioni Oriente, Milano 1971, pp. 9-11).

In questo scritto, evidentemente di natura politica, si sente l’eco non solo dello scrittore Mao Zedong, ma anche del suo periodare poetico. Tant’è che il sinologo e storico del Partico comunista francese, Jacques Guillermaz (Belley – Ain/Francia, 1911-1998), autore (com’egli scrive «abbastanza vicino alla Cina per ammirarla e amarla») della grande Storia del Partito Comunista Cinese 1921/1972 (due grossi tomi di complessive 1168 pagine), il cui primo volume (1921/1949) introduce con la seguente poesia del Presidente Mao Zedong:

            «Tutti studenti, nel fiore dell’età/ In prima fioritura di aspetto e di spirito,/ Con un impeto da studenti, eravamo/ Esaltati fino al limite estremo./ Col dito mostravamo i nostri campi, le nostre rive;/ Le nostre grida e il nostro coraggio si esaltavano nelle opere,/ E trattavamo tutti i nostri signori come polvere immonda» (v. Op. cit., p. 13).

Anche il secondo volume (1949/1972) lo introduce con un’altra poesia. Questa:

            «La nuova Cina si erge di fronte a noi. Dobbiamo accoglierla. Gli alberi della sua nave spuntano già all’orizzonte. Dobbiamo applaudire la sua venuta. Tendiamole le braccia! La nuova Cina è nostra» (v. Op. cit., p. 13).

Un altro amico sincero della Cina socialista fu Edgar Snow (Missouri/Usa, 1905-1972), che il 27 febbraio 1965 rilasciò una sua prima intervista su Mao e la guerra in Vietnam a «The New Republic» (rivista statunitense liberale di politica e cultura fondata nel 1914). Appena poco dopo, scrisse uno dei libri fondamentali sulla Lunga Marcia, Stella rossa sulla Cina (Einaudi Editore, con la cura di Enrica Collotti Pischel, Torino, prima edizione 1965. Io consulto la sesta del 1972). Già nel primo incontro (1936), Snow parla con un quarantatreenne Mao Zedong, in qualità di «Presidente della Repubblica sovietica popolare cinese», denominazione che aveva sostituito la vecchia «Repubblica sovietica degli operai e dei contadini cinesi». Già allora per lo scrittore statunitense, Mao rappresenta

            «un ricco squarcio di un’intera generazione, [egli] è una guida indispensabile per comprendere le origini dell’azione in Cina e quindi includerò in questo volume l’intera emozionante storia personale di Mao, proprio come me l’ha raccontata lui. […] Emana da quest’uomo un’incredibile capacità di sintetizzare ed esprimere le esigenze di milioni e milioni di cinesi e, in particolare, dei contadini, esseri umani impoveriti, sottoalimentati, sfruttati, analfabeti, ma anche gentili, coraggiosi, generosi e ora ribelli che formano la stragrande maggioranza della popolazione cinese. Se le loro esigenze e il movimento generale che le interpreta sono le forze dinamiche in grado di rigenerare la Cina, allora, in questo senso storico profondo, è possibile che Mao divenga un uomo di grandezza eccezionale. […] Non voglio essere io a pronunciare il verdetto della storia: a ogni modo Mao è una personalità interessante, […] ha fama di godere di un incantesimo. Veniva dato per morto dai suoi nemici e, dopo pochi giorni, si riparlava di lui sulle colonne dei giornali e lo si diceva vivo e attivo come sempre. […] Non ho mai incontrato neppure alcuno al quale non piacesse “il presidente”, come lo chiamano tutti, e non lo ammirasse. La sua personalità nell’intero movimento ha indiscutibilmente un ruolo di primaria importanza. Mao mi è sembrato un uomo molto interessante e complesso. Ha la semplicità e la naturalezza dei contadini cinesi, uno spiccato senso umoristico e si compiace della risata paesana» (v. Op. cit., pp. 83, 86).

Si potrebbe continuare a citare ancora molte altre pagine di Edgar Snow in Stella rossa sulla Cina, ma le righe riportate sono sufficienti a dare un’idea di quella che era la considerazione di un occidentale per il grande rivoluzionario cinese. Tuttavia, vale la pena di citare ancora un altro passo, che è nell’epilogo, quand’ancora la guerra di liberazione nazionale non era stata conclusa:

            «Il passare del tempo ha reso pienamente ragione al giudizio di Mao Zedong e degli altri dirigenti comunisti che il conseguimento dell’unità nazionale per la lotta contro il Giappone era più importante di qualsiasi altro obiettivo immediato del movimento rivoluzionario. Se la guerra civile fosse continuata dopo l’invasione giapponese, la Cina non avrebbe mai potuto portare a termine la sua epica lotta solitaria contro la schiavitù» (v. Op. cit., p. 559).

Il secondo libro di Edgar Snow è La lunga rivoluzione (Einaudi, 1973, con la traduzione di Emilio Sarzi Amadé e un eccezionale reportage fotografico di Michelangelo Antonioni). Snow morì improvvisamente a 67 anni nel 1972 e il libro fu pubblicato per volontà della moglie Lois Wheele Snow, che ringraziò l’editore statunitense (Random House Inc. di New York) e che, sulla prima pagina del volume, volle inserita questa dedica:

            «Dedico questo libro ai medici e agli infermieri della Repubblica Popolare Cinese, che hanno aiutato mio marito, e al Presidente Mao Zedong e al suo primo ministro Chou En-lai, che hanno reso possibile questa dimostrazione di affetto e di cura» (v. Op. cit., p. 1).

Bello l’incipit del primo capitolo – Incontro a T’ien An Men – con cui Snow inizia il suo racconto:

            «Quella del ventunesimo anniversario della fondazione della Repubblica popolare era una splendida giornata dell’ottobre pechinese. Me ne stavo seduto, senza sospettare nulla, nell’affollata tribuna di T’ien An Men (Porta della Pace Celeste), quando sentii tirarmi per la manica. Mi voltai, e vidi il primo ministro Chou En-lai. Mi trascinò in fretta, insieme a mia moglie Lois, accanto al Presidente Mao e, per qualche minuto, ci trovammo al centro del quarto cinese (o forse era un quinto?) dell’umanità. I dirigenti cinesi non fanno mai nulla, pubblicamente, senza uno scopo. Stava accadendo qualcosa che aveva un significato. Ma quale?/ In fondo alla grande piazza, che può contenere mezzo milione di persone, un grande cartellone proclamava, a caratteri che si potevano leggere da molto lontano, una frase della dichiarazione fatta da Mao Zedong il 20 maggio 1970. Era la dichiarazione con la quale la Cina proclamava il suo fermo appoggio alla resistenza opposta dal principe Sihanouk al colpo di stato di Lon Nol in Cambogia e ai suoi alleati americani, ed a quella alleanza antiamericana dei popoli indocinesi che aveva appena visto la luce. Come a sottolineare ulteriormente questa presa di posizione, a fianco del Presidente c’era, anche lui in piedi, il principe Sihanouk. Il principe sorrideva […] e quando mia moglie gli disse che noi eravamo i soli americani che fossero contrari all’invasione della Cambogia rispose con calore: “Il popolo americano è nostro amico”./ “Popoli del mondo – affermava la dichiarazione di Mao, unitevi per sconfiggere gli aggressori americani e tutti i loro cani scodinzolanti”».

Ecco, questo per mostrare il livello di amicizia che c’era tra il giornalista americano Edgar Snow e il Presidente Mao. Prima di morire, Edgar Snow aveva avuto modo di scrivere anche una bella introduzione al celebre libro di Joshua S. Horn, Dottore in Cina. Le esperienze di un chirurgo inglese nella Repubblica Popolare Cinese (traduzione di Giorgio Zucchetti – all’epoca segretario dell’Associazione d’Amicizia Italia-Cina – Longanesi & C., 1969), nella quale scrive parole chiare nei confronti di Mao:

            «La storia che il dottor Joshua Horn fa dei suoi quindici anni trascorsi in Cina come chirurgo, insegnante e lavoratore medico nelle campagne è un libro rivelatore e commovente. […] Il dottor Horn non lascia dubbi sul fatto che egli stesso è uno che crede nell’efficacia del pensiero di Mao, ma non pretende di affermare che esso abbia compiuto miracoli. Il suo non è rapporto critico, ma egli descrive francamente le difficili condizioni di lavoro e la povertà materiale da cui era circondato. “Ma a quanto mi consta” – egli scrive – “pochissimi cinesi si considerano poveri […] il popolo cinese ha una vita culturale più ricca, e meglio articolata, usa con maggior profitto il suo tempo libero e ha un’idea più chiara di dove vuole andare e di come ci andrà, che qualsiasi altro popolo che io abbia mai conosciuto. E ciò lo rende ricco, non povero”. È evidente che il dottor Horn non ha accumulato ricchezze in Cina e tuttavia è chiaro che anch’egli si sente, come risultato dell’esperienza che vi ha guadagnato, “ricco, non povero”» (v. Op. cit., pp. 11-12).

 

Il libro Mao Zedong. Una vita per la rivoluzione (Bompiani 1972), scritto dalla cinese Han Suyin, si apre con un esergo molto interessante sul piano storico. Questo che cito è solo una parte dell’intero testo che, invece, in modo più completo, è inserito nel Prologo:

            «Nessuno parla oggi della Cina senza parlare del suo grande dirigente, il presidente Mao Zedong. La storia della vita del presidente Mao è in sostanza la storia della nuova Cina. Sono rari i casi in cui un individuo ha un’importanza così profonda nella storia di una nazione» (Pechino, 6 ottobre 1971, firmato da Hailè Selassiè. E questo mi pare essere un evento di notevole considerazione se pensiamo che Selassè veniva considerato e si sentiva egli stesso come una divinità in terra e come imperatore di non so quanti territori africani).

Il libro, di 512 pagine, contiene un’interessante Nota dell’autrice, in cui ringrazia

            «in primo luogo la memoria di migliaia di operai e contadini cinesi che sono morti per la rivoluzione. [… Ringrazia] molti, moltissimi amici, sia cinesi che di altre nazioni e, soprattutto, il defunto Edgar Snow, che [le] ha concesso tanto del suo tempo e di leggere e di utilizzare buona parte del materiale a sua disposizione. [Ringrazia anche] la Signora Teng Ying-chao, moglie di Sua Eccellenza il premier Chou En-lai per aver sollecitato la [sua] immaginazione con una sola frase e aver quindi gettato il seme di questo libro, circa 16 anni orsono. Parlando con lei, un lontano giugno 1956, ella paragonò la popolazione cinese ad un grande oceano e i leader (come lei) alla bianca schiuma che sta in cima alle onde e che nasce da loro, da loro si fa trasportare, eternamente si ricrea ma non esisterebbe senza l’oceano. Quest’immagine [lei] non l’ha mai dimenticata. Fu allora che [Suyin] pensò al presidente Mao come a colui che è contemporaneamente il figlio e il padre della rivoluzione, l’uomo-nazione e anche l’uomo-oceano, l’allievo del suo popolo e, al tempo stesso, il più debitore verso questo genio; il creatore di una nuova Cina e il distruttore della peggiore delle tradizioni cinesi: sottomissione e obbedienza al padrone» (v. Op. cit., p. 6).

In tempi più recenti il giornalista Manlio Dinucci, per diversi anni direttore di «Nuova Unità» (organo ufficiale del Partito comunista d’Italia marxista-leninista), che ha vissuto e lavorato per diversi anni in Cina (ha scritto articoli anche per «Renmin Ribao», “Quotidiano del Popolo”), ha scritto uno dei più importanti libri sul grande Paese asiatico – La lotta di classe in Cina. 1949-1974 (Mazzotta editore, Milano 1975). Per chi oggi volesse capire cos’è stata la Cina di Mao non può non leggere questo libro. Di esso riporto solo un piccolo passo, sufficiente però per capire la figura del presidente Mao nel difficile contesto di un Paese di un miliardo e passa di uomini e donne. Scrive:

            «La concezione strategica sviluppata da Mao Zedong nella realtà della Cina e divenuta, attraverso una dura lotta interna e la lezione di sanguinose sconfitte, la linea strategica e tattica del Partito comunista cinese, è sostanzialmente quella enunciata da Lenin nel luglio del 1920 al II Congresso dell’Internazionale. I popoli dei paesi coloniali e semicoloniali, per realizzare il socialismo, devono anzitutto abbattere il dominio dell’imperialismo e delle forze reazionarie interne – i signori feudali e la borghesia mercantile e usuraia – sulle quali esso si appoggia. Nell’epoca aperta dalla Rivoluzione d’Ottobre, queste rivoluzioni democratiche antimperialiste e antifeudali hanno acquistato un carattere nuovo: essendo dirette contro l’imperialismo, cioè contro la borghesia e il capitalismo internazionali, non fanno più parte della vecchia rivoluzione borghese, ma della nuova rivoluzione mondiale proletaria. Il loro obiettivo non è l’instaurazione di una vecchia democrazia, cioè una società capitalista sotto la dittatura della borghesia, ma di una nuova democrazia, una società sotto la dittatura congiunta delle classi rivoluzionarie dirette dal proletariato. Questa prima fase – la realizzazione di una società di nuova democrazia – prepara il terreno alla seconda fase – l’edificazione della società socialista./ La complessità di tale compito è sottolineata da Mao Zedong che, mentre rileva l’importanza della vittoria della guerra rivoluzionaria, afferma: “Abbiamo ancora molto da fare; paragonandolo a un viaggio, il lavoro compiuto è soltanto il primo passo di una lunga marcia di diecimila li [ricordo che un li cinese corrisponde a 500 metri]» (v. Op. cit., pp. 25-26).

Mi pare che in questa analisi ci sia tutta la spiegazione possibile per conoscere quella che è stata la Cina popolare sotto il periodo del presidente Mao. E ancora più recentemente Manlio Dinucci, su «il manifesto» (1 ottobre 2019) ha scritto un ricordo in occasione del 70° anniversario della fondazione della Repubblica popolare cinese, in cui scrive:

            «L’anniversario viene celebrato oggi con una parata militare, di fronte alla storica porta a Pechino. Dall’Europa al Giappone e agli Stati uniti, i grandi media la presentano come un’ostentazione di forza di una potenza minacciosa. Praticamente nessuno ricorda le drammatiche vicende storiche che portarono alla nascita della Nuova Cina. Scompare così la Cina ridotta allo stato coloniale e semicoloniale, sottomessa, sfruttata e smembrata, fin dalla metà dell’Ottocento, dalle potenze europee (Gran Bretagna, Germania, Francia, Belgio, Austria e Italia), dalla Russia zarista, dal Giappone e dagli Stati uniti. Si cancella il sanguinoso colpo di Stato effettuato nel 1927 da Chiang kai-shek – sostenuto sia dagli anglo-americani che da Hitler e Mussolini, alleati del Giappone – che stermina gran parte del Partito comunista e massacra centinaia di migliaia di operai e contadini. Non si fa parola della Lunga Marcia dell’Esercito Rosso che, iniziata nel 1934 quale disastrosa ritirata, viene trasformata da Mao Zedong in una delle più grandi imprese politico-militari della storia./ Si dimentica la guerra di aggressione alla Cina scatenata dal Giappone nel 1937: le truppe nipponiche occupano Pechino, Sciangai e Nanchino, massacrando in quest’ultima oltre 300 mila civili, mentre altre dieci città vengono attaccate con armi biologiche. Si ignora la storia del Fronte unito antigiapponese, che il Partito comunista costituisce con il Kuomintang: l’esercito del Kuomintang, armato dagli Usa, da un lato combatte gli invasori giapponesi, dall’altro sottopone a embargo le zone liberate dall’Esercito Rosso e fa sì che si concentri contro di esse l’offensiva giapponese;  il Partito comunista, cresciuto da 40 mila a 1,2 milioni di membri, guida dal 1937 al 1945 le forze popolari in una guerra che logora sempre più l’esercito nipponico./ Non si riconosce il fatto che con la sua Resistenza, costata oltre 35 milioni di morti, la Cina contribuisce in modo determinante alla sconfitta del Giappone il quale, battuto nel Pacifico dagli Usa e in Manciuria dall’Urss, si arrende nel 1945 dopo il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki./ Si nasconde cosa avviene subito dopo la sconfitta del Giappone: secondo un piano deciso a Washington, Chiang kai-shek tenta di ripetere quanto aveva fatto nel 1927, ma le sue forze, armate e sostenute dagli Usa, si trovano di fronte l’Esercito popolare di liberazione di circa un milione di uomini e una milizia di 2,5 milioni, forti di un vasto appoggio popolare. Circa 8 milioni di soldati del Kuomintang vengono uccisi o catturati e Chiang kai-shek fugge a Taiwan sotto protezione Usa./ Questo, in estrema sintesi, è il percorso che porta alla nascita della Repubblica popolare cinese 70 anni fa. Una storia scarsamente o per niente trattata nei nostri testi scolastici, improntati a una ristretta visione eurocentrica del mondo, sempre più anacronistica. Una storia volutamente cancellata da politici e opinion makers perché porta alla luce i crimini dell’imperialismo, mettendo sul banco degli imputati le potenze europee, il Giappone e gli Stati Uniti: le “grandi democrazie” dell’Occidente che si autoproclamano giudici supremi col diritto di stabilire, in base ai loro canoni, quali paesi siano e quali non siano democratici. Non siamo però più all’epoca delle “concessioni” (aree urbane sotto amministrazione straniera) che queste potenze avevano imposto alla Cina, quando al parco Huangpu a Sciangai veniva “vietato l’ingresso ai cani e ai cinesi”».

Non bisogna dimenticare che all’epoca lo stesso Manlio Dinucci faceva parte del Partito comunista d’Italia (marxista-leninista) e che tale partito, durante tutta la sua vita politica (25 anni, dall’ottobre 1966 al settembre 1991), attraverso il suo settimanale «Nuova Unità» non mancò mai – neanche per un solo numero – di pubblicare quanto avveniva giorno dopo giorno nella Cina popolare. Nel 1976, in occasione della scomparsa (9 settembre) del Presidente Mao, un intero numero del giornale fu dedicato all’evento. Già la prima pagina dà l’idea dell’omaggio al grande rivoluzionario cinese. Tutt’intera mostra l’immagine di Mao e, all’interno delle sue pagine, il segretario del partito, Fosco Dinucci, nella Dichiarazione alla stampa, scrive:

            «Ho incontrato il compagno Mao Zedong a Pechino i primi di ottobre 1969. Il ricordo di questo colloquio è rimasto sempre molto vivo in me, tanto più che è stato l’ultimo incontro che il Presidente Mao ha avuto con un esponente politico italiano./ Fui ricevuto come dirigente del Partito comunista d’Italia (m-l) in un momento importante della Grande rivoluzione culturale proletaria e della situazione internazionale. […] Le considerazioni brevi e incisive, espresse con grande lucidità dal compagno Mao Zedong con particolare riferimento al nostro Partito, hanno sempre costituito un grande insegnamento per tutti noi. […] Ribadendo che ogni paese ha la sua specificità e che il marxismo-leninismo va applicato nella concreta realtà di classe, Mao Zedong ha sempre messo l’accento sui principi rivoluzionari validi universalmente: continuazione della lotta di classe nel socialismo; la via rivoluzionaria per l’abbattimento e l’annientamento della società capitalista, per il socialismo e il comunismo; la dittatura del proletariato come potere della grande maggioranza del popolo contro l’esigua minoranza degli oppressori e sfruttatori, contro i ritorni offensivi della reazione borghese e del fascismo; l’internazionalismo proletario. […] Ricordiamo che uno degli ultimi insegnamenti del compagno Mao Zedong è consistito nell’indicare al Partito e alle masse cinesi la necessità di approfondire lo studio teorico sulla dittatura del proletariato, per la sua decisa applicazione, perché la Cina rimanga sempre rossa, per impedire che vada a finire come l’Urss ove, dopo la scomparsa di Stalin, una cricca borghese capeggiata da Krusciov si è impadronita del potere./ Con Mao è scomparso il grande dirigente comunista che ha guidato il popolo cinese nella lotta per il riscatto e per una nuova società di uomini liberi e uguali, è scomparso un grande dirigente del proletariato mondiale che, con la sua azione ed elaborazione teorica, ha dedicato tutta la vita alla rivoluzione, si è dedicato fino all’ultimo a rafforzare la dittatura del proletariato in Cina, a difendere e sviluppare il marxismo-leninismo. La sua opera si proietta e continua a vivere nella grande Cina socialista, nelle lotte del proletariato e dei popoli della Cina e di tutto il mondo. Si può affermare con una precisa valutazione che l’opera di Mao Zedong segna tutta un’epoca storica per la Cina e per l’umanità intera».

E, in un’altra parte del giornale, sempre a proposito della scomparsa del Presidente Mao, egli afferma che:

            «Il nostro è un dolore di rivoluzionari. Noi comunisti siamo fatti di una tempra speciale. La figura e l’opera del presidente Mao indicano alla Cina socialista, al proletariato e ai popoli di tutto il mondo che, per essere fedeli al suo insegnamento, bisogna portare avanti più decisamente le lotte di liberazione e per la rivoluzione./ Il pensiero e l’opera di Mao Zedong continuano a vivere più che mai nelle lotte degli operai, dei braccianti, dei contadini poveri, degli intellettuali avanzati, dei giovani lavoratori e studenti del nostro paese e di tutto il mondo, continuano a vivere ovunque si soffre e si lotta, continuano a vivere nell’eroica resistenza dei popoli palestinese, spagnolo, brasiliano, cileno, indonesiano, di tutti i popoli che si battono per la liberazione e la causa rivoluzionaria./ In Italia, il nostro Partito e il suo organo di stampa “Nuova Unità” si sono sempre impegnati a far conoscere tra le masse il pensiero di Mao Zedong nella sua profonda essenza leninista, contro le interpretazioni distorte degli opportunisti di destra e di “sinistra”, soprattutto trotskisti».

In un’altra parte del giornale c’è poi il Messaggio del Pcd’I(m-l) al Comitato centrale del Partito comunista cinese, dove si dice:

            «Cari compagni,/ in questo momento di immenso dolore del Partito Comunista e del popolo cinesi per la scomparsa del grande e amato dirigente, il Presidente Mao, siamo al vostro fianco con lo stesso vostro profondo sentimento. La scomparsa del compagno Mao Zedong lascia un segno indelebile nel cuore dei comunisti, dei rivoluzionari, dei popoli del mondo intero. L’opera di Mao Zedong appartiene al proletariato internazionale, ai popoli del mondo intero, alla causa della rivoluzione proletaria e delle lotte di liberazione. Il pensiero di Mao Zedong costituisce un contributo fondamentale allo sviluppo del marxismo-leninismo. L’opera e il pensiero di Mao Zedong segnano tutta un’epoca storica. […] Il compagno Mao Zedong ha dato al marxismo-leninismo e al movimento comunista internazionale un contributo d’importanza storica fondamentale su come combattere e prevenire la restaurazione del capitalismo in un Paese socialista. Il suo insegnamento si riassume nella tesi marxista-leninista che per tutto il periodo storico del socialismo esistono le classi, le contraddizioni di classe e la lotta di classe, esiste la lotta tra la via socialista e la via capitalista, esiste il pericolo della restaurazione capitalista ed esiste la minaccia di sovversione e aggressione da parte dell’imperialismo. Che tali contraddizioni possono essere risolte solo basandosi sulla teoria della rivoluzione ininterrotta sotto la dittatura del proletariato e sulla pratica guidata da questa teoria. […] Compagni, il nostro dolore di comunisti per la scomparsa dell’amato dirigente del Partito fratello della Cina, il compagno Mao Zedong, è estremamente profondo; ma noi siamo decisi, come lo siete voi, a trasformare il dolore in forza, ad assimilare, insieme agli insegnamenti di Marx, Engels, Lenin, Stalin, gli insegnamenti di Mao Zedong, facendo sì che essi siano una forza sempre più possente nello sviluppo della rivoluzione nel nostro paese».

Tutto ciò appare sufficiente a comprendere quanto siano stati forti i legami tra il Partito comunista cinese e il Partito comunista d’Italia (marxista-leninista) di Fosco Dinucci. D’altro canto, in perfetta linea col pensiero del Presidente Mao, è l’attuale gruppo dirigente del Partito comunista cinese, guidato dal Presidente Xi Jinping che, il 18 ottobre 2017, nel Rapporto al XIX Congresso del Partito comunista cinese, ha ribadito che:

            «Il XIX Congresso Nazionale del PCC è un congresso estremamente importante mentre entriamo nella fase decisiva della costruzione integrale della società mediamente agiata e nel momento stesso in cui il socialismo con caratteristiche cinesi è entrato in una nuova era./ Il tema di questo congresso è: rimanere fedeli all’impegno iniziale, tenere costantemente presente la nostra missione, elevare in alto la grande bandiera del socialismo alla cinese, conseguire la decisiva vittoria della costruzione integrale della società mediamente agiata, far trionfare il socialismo alla cinese nella nuova era e combattere senza sosta per realizzare il sogno cinese del grande rinnovamento della nazione […] il nostro partito è stato guidato dal marxismo-leninismo, dal pensiero di Mao Zedong, dalla teoria di Deng Xiaoping, dal pensiero importante delle Tre Rappresentazioni e dal concetto di sviluppo scientifico; si è conformato ai principi secondo i quali bisogna liberare la nostra mente, dare prova di obiettività e di realismo e di essere in sintonia con il tempo. Fedele al materialismo dialettico e materialismo storico, e in relazione alle nuove condizioni dei tempi e alle esigenze della pratica, il partito ha adottato una nuova visione per approfondire la sue conoscenze delle leggi che regolano l’esercizio del potere dei partiti comunisti, l’edificazione socialista e l’evoluzione della società umana e ha continuamente portato avanti ricerche teoriche. Importanti risultati in termini di innovazione teorica sono stati ottenuti, dando origine al pensiero del socialismo con caratteristiche cinesi nella nuova era».

Recentemente un altro marxista leninista italiano, rimasto ancora tale, Amedeo Curatoli, nel 1966 fondatore del Pcd’I(m-l) a Napoli, nel suo libro In difesa della Cina socialista (Quaderni di «Fronte Unito», Napoli 2017), afferma che

            «la Cina è uno Stato socialista retto da un grande Partito comunista che non si è sciolto né ha deciso di cambiare nome, un grande partito comunista forte di circa ottanta milioni di iscritti il quale, al contrario di ciò che fece delittuosamente Krusciov con Stalin, non ha demaoizzato il proprio passato. La Cina, grazie a Deng Xiaoping, ha imboccato la via (spregiudicata e, ovviamente anche irta di pericoli) di una colossale Nuova politica economica imprimendo una svolta, nello sviluppo economico del Paese, di portata storica mondiale» (v. Op. cit., p. 78). 

E sulla personalità di Mao, Curatoli scrive:

            «Una svolta della storia è stata la morte di Mao Zedong; una svolta nella storia è stata la morte di Stalin. I marxisti dogmatici non riescono a capire la differenza abissale fra questi due eventi; per costoro l’uno vale l’altro, non capiscono la dottrina dell’evoluzione storica multiforme e piena di contraddizioni che non ha nulla a che vedere con la visione evoluzionistica secondo la quale ogni nuova svolta della storia non è un salto dialettico, ma deriva dalla situazione che l’ha preceduta, per pura “filiazione» evoluzionistica”./ All’indomani della morte di Stalin si è aperta una lacerante contraddizione: si formò una congiura, capeggiata da Krusciov che diede vita ad una vera e propria “controrivoluzione nel campo della sovrastruttura“, secondo l’espressione che usò il Partito comunista cinese. Al contrario, all’indomani della scomparsa di Mao, il PCC mise all’ordine del giorno, sotto la guida di Deng Xiaoping, i precisi compiti pratici che si imponevano alla Cina: la contraddizione principale in Cina – disse il PCC – non è la lotta di classe ma lo sviluppo delle forze produttive. [… Così] il PCC riconobbe i meriti imperituri di Mao nettamente prevalenti, ma ne criticò anche gli errori che commise nell’ultima parte della sua vita. Al suo celebre discorso Sulla giusta soluzione delle contraddizioni in seno al popolo, tenuto nel 1957, seguì, dieci anni dopo, la Rivoluzione culturale proletaria, voluta e capeggiata da Mao personalmente. La teoria e la pratica della Rivoluzione culturale andava nel senso opposto a quella delineata nel discorso del 1957: la teoria della lotta fra le due linee all’interno del partito, una proletaria e una borghese, portava a violenti, insanabili, drammatici contrasti che spinsero la Cina sull’orlo della guerra civile, per ammissione dello stesso Mao. La Rivoluzione culturale proletaria si è dimostrata, nei fatti, la teoria e la pratica dell’errata soluzione delle contraddizioni in seno al popolo, è stata la teoria e la pratica di rendere antagoniste le contraddizioni in seno al popolo. […] Riconoscere i meriti storici di Mao Zedong – ha detto Deng Xiaoping – non sarebbe stato da marxisti, e non sarebbe stato da marxisti neanche misconoscere gli errori che Mao compì alla fine della sua vita. […] Oggi il ritratto di Mao Zedong campeggia sorridente sull’immensa piazza Tienanmen. Mao è la nazione cinese, è amato dal suo popolo, è oggetto di culto da parte di tutte le nazionalità, compresa quella tibetana» (v. Op. cit., pp. 6 e 54).

 

Il 13 gennaio 1949, quando ancora in Cina non era stata proclamata la Repubblica Popolare, «l’Unità» (p. 3) organo del Partito comunista italiano, pubblicò alcuni brani di un Discorso agli intellettuali cinesi del Presidente Mao risalenti al 1942. Si tratta di considerazioni sulla letteratura. Eccone qualche stralcio:

            «Per chi scriviamo? Fra i nostri compagni, alcuni pensano ancora che la letteratura rivoluzionaria non sia destinata al popolo, ma agli sfruttatori e agli oppressori. C’è una letteratura per gli sfruttatori e gli oppressori: è la letteratura del capitalismo e dell’imperialismo, che predica la sottomissione. […] La nostra letteratura dev’essere completamente diversa: deve essere una letteratura per il popolo […] Non dobbiamo mai mettere in prima fila le classi medie e in seconda fila gli operai, i contadini, i soldati. È su questo punto che molti compagni non hanno un’opinione giusta di quello che deve essere il loro pubblico. Troppi fra loro si consacrano a studiare gli intellettuali, ad analizzare la loro psicologia, a descriverli e ad accusare le loro insufficienze. Se lo facessero dal punto di vista del proletariato, sarebbe bene, ma le cose non stanno così. Scrivono secondo la prospettiva della piccola borghesia, ed è la piccola borghesia che si esprime e si realizza attraverso le loro opere. Mancano di contatti con gli operai, i contadini e i soldati, e oggi che li descrivono, danno l’impressione che colui che descrivono sia un borghese travestito in tuta da lavoro./ Quale sarà la nostra materia prima? Ogni opera letteraria, qualunque sia l’ideologia su cui essa è fondata, è il prodotto d’un lavoro artistico che utilizza come materia prima la vita sociale quale si riflette nella mente umana. Le attività umane sono una miniera inesauribile per gli artisti e gli scrittori. Sono gli elementi allo stato originale, grezzi ma vivi, ricchi e fondamentali. È questo il solo materiale di prima mano. Anche la letteratura delle altre epoche e la letteratura straniera può essere considerata materia prima, ma lo è solo di seconda mano, e se la mettete prima dell’altra sarà come mettere il carro davanti ai buoi. Quando ci serviamo di un simile materiale, dobbiamo farlo con spirito critico./ La realtà è la sola sorgente delle forme idealizzate della letteratura e dell’arte, e la realtà è infinitamente più viva, più commovente e ricca di contenuto che non l’arte. Tuttavia il popolo ha bisogno di arte e non di realtà. Perché? Perché le creazioni della letteratura e dell’arte sono più sistematiche, più condensate, più tipiche, e perciò più universali. Il vero Lenin vivo era infinitamente più vivo e più interessante che il Lenin del romanzo, della commedia o del film, e tuttavia il Lenin vivo ha fatto troppe cose perché se ne possano conoscere tutti i particolari e ha fatto molte cose non diverse da quelle che tutti gli uomini fanno. D’altra parte poche persone hanno avuto occasione di incontrare Lenin in carne ed ossa e, ora che è morto, nessuno lo incontrerà mai più. Ecco perché il Lenin di un romanzo, di una commedia o di un film, presenta in un certo senso dei vantaggi sul Lenin in carne ed ossa./ La funzione dell’artista e dello scrittore è di tradurre, in forma organizzata e sistematica, l’esperienza quotidiana, di mettere in rilievo i punti essenziali, di creare dei tipi, facendo di tutto ciò un’opera d’arte./ Dato che dobbiamo rendere più stretti i nostri legami con le masse nuove, dobbiamo con tutti i mezzi, risolvere il problema dei giusti rapporti fra l’individuo e le masse. Due frasi di un poema di Lu Sun possono servirci da insegna: “Quando anche un migliaio di matamori mi mostrassero a dito – li ricambierei solo con un freddo sguardo di sfida – Ma a quel bambinetto candido voglio sottomettermi. – Essere per lui placido bove perché mi si arrampichi addosso“./ I mille matamori sono i nostri nemici. Non cederemo mai ai nostri nemici, per quanto terribili sono. Il bambinetto è la classe operaia e la massa del popolo. Tutti i membri del Partito comunista e tutti gli scrittori comunisti devono sottomettersi alla classe operaia e servirla fino alla fine dei loro giorni».

E ancora Mao, in una Lettera sulla poesia, inviata a Keh-chia il 12 gennaio 1957, scrive:

            «Cari compagni,/ ho ricevuto già da qualche tempo la vostra gentile lettera e mi scuso di rispondervi con tanto ritardo. Secondo il vostro desiderio vi invio, scritti in fogli separati, tutte le poesie in stile antico [si tratta delle sue poesie] di cui abbia ricordo e le altre otto che mi avete inviato, in tutto cioè diciotto poemi di cui potete disporre liberamente./ Dato che questi versi sono scritti in stile antico, non avevo mai voluto farli conoscere ufficialmente, per il timore che potessero incoraggiare una falsa tendenza ed esercitassero una cattiva influenza sulla gioventù; non valgono del resto granché come poesie e non hanno nulla di notevole. Tuttavia, se giudicate che debbano essere pubblicati e che possano essere corretti gli eventuali errori di qualche brano nelle copie manoscritte, fare pure come vi aggrada./ È un bene che compaia la rivista “Poesia”. Spero che crescerà e si svilupperà. In poesia il posto d’onore deve beninteso spettare ai versi in stile moderno. Versi in stile antico se ne possono fare, ma non è il caso di raccomandarli ai giovani, perché le forme classiche ostacolano il pensiero e sono d’altronde difficili da padroneggiare. Queste mie considerazioni sono dei semplici suggerimenti che sottopongo alla vostra attenzione./ Fraterni saluti» (v. Mao Zedong, Sulla letteratura e l’arte, Edizioni Oriente, Milano, 1965, pp. 173-174).

Abbiamo visto che nella Prefazione al libro di Mao Zedong La mia vita, Gabriele De Rosa indica Mao come rivoluzionario ma anche poeta. Non è il solo però a sviluppare tale concetto. Lo fa anche Franco Fortini nell’Introduzione al libro Mao Zedong, Poesie (Samonà e Savelli seconda edizione 1969, prima edizione Avanti! 1959), anche se il critico letterario introduce il suo testo con un incipit che dice:

            «Della qualità poetica di questi versi di Mao Zedong è quasi impossibile parlare» (v. Op. cit., p. 5), anche se poi, nel corso del suo scritto, Fortini mitiga questo suo giudizio.

Più vicina alla poesia del presidente Mao è invece Enrica Collotti Pischel che, nel suo fondamentale libro La lunga vita di Mao Zedong (già citato), scrive:

            «Il Mao poeta è un uomo che si interroga: dotato certamente di alcune incrollabili convinzioni (che appaiono radicate prima ancora sul terreno morale che su quello intellettuale o politico) e di un’altrettanta potente fede nella necessità della vittoria delle forze nuove, del progresso, cioè della rivoluzione, ma altrettanto certamente impegnato in uno sforzo di ricerca di soluzioni e di prospettive che non appaiono affatto scontate o prefigurate ed irreversibili. Il Mao poeta è, come il Mao ideologo, totalmente permeato dalla visione dialettica della realtà, dalla coscienza delle contraddizioni che percorrono la vita dell’uomo e della natura. Ma, nella poesia di Mao, le contraddizioni assumono il carattere di tensioni vissute, prendono tutta la loro dimensione di tragedia umana, si concretano nella forma dei precisi ostacoli che l’uomo deve superare nella lotta, del prezzo che deve pagare. […] Le poesie sono l’aspetto dell’opera di Mao nella quale la fede della forza del “nuovo” è più dominante, la ricerca di soluzioni per crearlo più aperta e meno predeterminata. Per questo la pubblicazione delle poesie di Mao nel 1957 – anche se l’autore nel renderle note si scusava con le nuove generazioni per lo stile tradizionale nel quale sono scritte e forse anche per l’esperienza culturale raffinata che sta alle loro spalle – aveva un preciso significato nella storia ideologica della Cina contemporanea: era un appello alla mobilitazione rivoluzionaria, a una ripresa della iniziativa politica e ideologica dei militanti, soprattutto dei giovani» (v. Op. cit., pp. XIX- XX).

Anche il latinista e accademico Mario Geymonat (Torino, 1941 – Venezia, 2012), che per anni fu presidente del Centro Gramsci di Educazione, a dare un’interpretazione di quella che era la Cina di Mao Zedong. Natalia Aspesi, in un articolo dal titolo Noi cinesi d’Italia, scrive:

            «Radiato nel ’63 dalla Fgci  perché distribuiva documenti cinesi, il giovane Geymonat fondò il Partito comunista d’Italia (marxista-leninista), ufficialmente riconosciuto dalla Cina  (che però allora non era riconosciuta in Italia), e subito in contrasto con gli altri gruppi maosti. Il loro foglio si chiamava “Nuova Unità”. Di Mao [parole di Geymonat] oggi penso che fu un grande poeta, che era abilissimo nei suoi discorsi a intrecciare realtà e finzione, penso che fu un appassionato calligrafo e un  elemento di continuità nella favolosa storia della Cina: un “imperatore” [sic! Geymonat mi confidò a voce che non fu questa la parola usata]” tra cielo e terra, come quelli del passato. Allora ci sentivamo grandi, con in mano il futuro di tutti, quando salivamo in venti su un tram, agitando il libretto rosso: che reputo ancora molto politico, con frasi bellissime che ci esaltavano, come “la scintilla che fa bruciare l’intera prateria”. Noi ci sentivamo quella scintilla:/ Come maoista il giovane Geymonat non era molto disciplinato: “Facevamo autocritica cinque sere su sette ed io dovevo riconoscere che non riuscivo a mettere la politica davanti a tutto, il che era quasi un tradimento”. Andò in Cina per la prima volta nel 1967: “non si poteva ancora andare sulla grande muraglia, simbolo di un passato aristocratico, però si mangiava meglio di adesso. Ci tornai cinque anni fa, a un convegno, e già c’era un’invasione di turisti e ritrovai i miei amici latinisti che in passato erano stati mandati da Mao ad allevare polli. Ci sono stato anche il mese scorso e l’impressione è che comunque la Cina cambi, però niente spezzerà la sua continuità col passato. Ancora, alla mattina, tutti vanno a fare ginnastica nei giardini, e magari invece dei movimenti rituali ballano il valzer. C’è forse il pericolo che si americanizzino troppo, ma non credo”. Cosa rimpiange degli anni maoisti, a parte la giovinezza? “Noi guardavamo al mondo, i giovani d’oggi guardano all’America. Noi eravamo certi di costruire il futuro per tutti, oggi sento molta disperazione. Noi eravamo pronti a morire per un ideale, oggi si è pronti a morire per droga. Noi sognavamo il comunismo perfetto, oggi temo il fascismo» (v. «la Repubblica», 11 novembre 1993, p. 27).

Dice Mario Geymonat «di Mao, oggi penso che fu un grande poeta». Sì, un grande poeta. Un poeta rivoluzionario:

            «CHANGSHA. // Solitario sto nel freddo autunno/ e guardo il fiume scorrere verso settentrione,/ al di là della costa dell’Isola d’Arancio;/ vedo colline e miriadi tutte tinte di rosso,/ e lunghe file d’alberi cosparsi di porpora./ Sulla larga corrente, così intensa d’azzurro,/ cento navigli stretti l’un l’altro navigano;/ le aquile si scagliano nell’alto dei cieli,/ volteggiano i pesci tra le secche;/ milioni di creature, sotto il cielo rabbrividente,/ lottano per la libertà./ E in questo immenso spazio, immerso in profondi pensieri,/ io chiedo alla vasta terra, all’azzurro senza confini:/ chi sono, chi sono i padroni di tutta la natura?// Qui sono sttao coi miei compagni, nei giorni passati,/ durante quei mesi pieni, quegli anni di fatiche:/ eravamo studenti, tutti eravamo giovani,/ fieri nel portamento, con i corpi robusti,/ con i puri ideali di coloro che imparano a conoscere./ Integri e giusti, coraggiosi e leali,/ il dito puntavamo verso la nostra terra/ e i nostri scritti erano pieni di lodi e di biasimi./ Coloro che stavano in alto, per noi,/ contavano meno della polvere./ Ma, dunque, non ricordi/ come, a metà corrente, noi colpivamo le acque,/ e come battevamo le onde contro le barche in corsa?» (Poesia scritta da Mao Zedong tra il 1913 e il 1918, quand’era studente della Prima Scuola Normale di Hunan, nel Changsha, capoluogo dell’Hunan, porto fluviale sul Xiang. In mezzo al fiume c’è l’Isola d’Arancio, che Mao, assieme ai suoi compagni di scuola, raggiungeva a nuoto).

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *