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100° ANNIVERSARIO DELLA FONDAZIONE DEL PARTITO COMUNISTA D’ITALIA DI ANTONIO GRAMSCI (1921) E 100° ANNIVERSARIO DELLA NASCITA DI FOSCO DINUCCI (1921) FONDATORE DEL PARTITO COMUNISTA D’ITALIA (MARXISTA-LENISTA) (1966) di Maurizio Nocera

Straordinaria coincidenza quest’anno. Ricorre il 100° anniversario della nascita a Livorno del Pcd’I di Antonio Gramsci e ricorre pure il 100° anniversario della nascita a Pontasserchio (Pisa) di Fosco Dinucci, fondatore nel 1964 del Movimento marxista-leninista italiano, fondatore nello stesso anno della rivista comunista «Nuova Unità», nonché fondatore, il 15 ottobre 1966 a Livorno (nello stesso teatro “San Marco”) del Partito comunista d’Italia (marxista-leninista), di cui fu eletto segretario generale, rimanendo tale fino allo scioglimento a Roma del partito il 15 settembre 1991 al VI° congresso straordinario, imposto da un gruppo di trotskisti annidatosi nell’Ufficio politico del partito.  

Fosco Dinucci era nato a Pontasserchio il 27 maggio 1921 ed è morto il 28 aprile 1993. Durante il ventennio mussoliniano fu antifascista poi, alla caduta del regime, fu partigiano combattente sull’appenino tosco-emiliano nella Brigata “Garibaldi”; fu anche gappista e commissario politico. Arrestato dai nazifascisti fu sottoposto a durissimi interrogatori. Il periodo della Resistenza e della lotta partigiana, Fosco non lo dimenticò mai, tant’è che in uno dei suoi articoli su «Nuova Unità», scrisse.

            «La Resistenza antifascista, che culminò nella guerra partigiana e nell’insurrezione del 25 aprile 1945, ripropone continuamente la sua attualità, come richiamo alle più valide esperienze di lotta popolare nel nostro Paese, come insegnamento per i compiti rivoluzionari del Partito comunista d’Italia (marxista-leninista)./ La Resistenza ebbe inizio fin da quando, dopo la prima guerra mondiale, le bande mussoliniane, al servizio dei grandi capitalisti e agrari, in connubio con la casta militare e la monarchia, imperversarono nelle città e nelle campagne d’Italia, instaurando un’aperta dittatura borghese che soppresse ogni libertà per il popolo e stabilì il più duro sfruttamento sui lavoratori./ Le masse lavoratrici, specialmente gli operai e i contadini, lottavano contro le conseguenze della crisi susseguente alla guerra: aumento dei prezzi, disoccupazione, miseria e fame./ Si sviluppò un forte movimento rivoluzionario che nel 1920 portò all’occupazione delle fabbriche. Contro i lavoratori, specialmente contro quelli più impegnati nella lotta, la classe dominante italiana scatenò la violenza reazionaria, avvalendosi delle squadracce fasciste e dell’apparato statale. Le forze popolari, abbandonate a se stesse per il tradimento socialdemocratico, prive della guida di un’avanguardia proletaria che avesse avuto modo di formarsi come partito marxista-leninista, non poterono opporre una valida violenza rivoluzionaria. Operai, braccianti, contadini poveri, giovani lavoratori e studenti, intellettuali progressisti compirono numerosi atti di eroismo, difendendo le loro organizzazioni di classe e i loro giornali./ Mancando però una guida rivoluzionaria, questa opposizione non potette spezzare la violenza fascista che imperversava con l’appoggio dell’apparato statale e con il finanziamento della reazione padronale. Quando i fascisti compivano assassini, non solo non venivano perseguiti, ma potevano contare su autorevoli protezioni nell’ambito dello Stato borghese. Quando, invece, un lavoratore si difendeva con la violenza rivoluzionaria, se non veniva ucciso subito dai fascisti, era tratto in arresto e deferito ai tribunali. […] Migliaia e migliaia di lavoratori, soprattutto comunisti, furono perseguitati, imprigionati, condannati a lunghi anni di carcere, mandati al confino. Ci furono condanne all’ergastolo e a morte. I militanti antifascisti non si piegarono di fronte alla feroce reazione. Davanti ai tribunali, da accusati si trasformarono in accusatori; nelle carceri dettero vita a corsi di educazione politica e ideologica, per temprarsi come rivoluzionari. Antonio Gramsci, con il suo esempio politico e morale, riassume tutti i valori della Resistenza antifascista. […] Gli ideali che ispirarono i partigiani, le masse insorte, coloro che affrontarono torture e morte, non furono costituiti soltanto dall’obiettivo della liberazione dal dominio nazifascista, ma anche dalla profonda aspirazione a creare una nuova società senza sfruttati e sfruttatori./ Per conseguire questo obiettivo, occorreva distruggere il fascismo sino alle fondamenta, nelle sue origini di classe. […] Di fronte all’acutizzarsi dello scontro di classe, i lavoratori acquistano sempre più la consapevolezza di ricreare l’unità antifascista e antimperialista, per portare a fondo la lotta contro il fascismo, contro la società che ne è matrice e contro l’imperialismo che lo sostiene» (vd. Fosco Dinucci, Viva l’insurrezione del 25 aprile. Viva la guerra partigiana. Viva il 1° Maggio nella lotta di classe, in «Nuova Unità», 29 aprile 1971, pp. 1 e 4)

Fosco Dinucci militò nel Partito comunista italiano (Pci), svolgendo funzioni dirigenti a livello nazionale , dal 1949 insegnò ideologia marxista-leninista alle Frattocchie nella “Scuola di partito”. Rimase nel Pci fino al 1962, quando dal Partito comunista cinese e dal Partito del Lavoro d’Albania giunsero in Italia i primi contrasti tra i marxisti-leninisti e i revisionisti sovietici kruscioviani. A quel tempo, sotto la segreteria di Palmiro Togliatti, che significava un Pci monolitico, non era facile differenziarsi sul piano ideologico, perché fortissimo era il legame organizzativo tra la direzione del partito e i militanti di base. Tuttavia Fosco seppe bene come districarsi dalla stretta revisionista e, assieme ad altri militanti (Mario Geymonat a Milano, Ugo Pisani a Padova, Livio Risaliti a Livorno, Pietro Scavo a Bari, e, a seguire, Angelo Cassinera a Casteggio/Pavia, Ennio Antonini a Nereto/Teramo, Amedeo Curatoli a Napoli), contribuì a far nascere il Movimento marxista-leninista italiano, successivamente il Pcd’I(m-l).

Il partito di Dinucci fu subito riconosciuto (agosto 1968) dal Partito comunista cinese e (nello stesso tempo) dal Partito del Lavoro d’Albania. Riconoscimenti che significarono diversi incontri tra Fosco e Mao, tra Fosco ed Enver Hoxha, cioè incontri ai massimi livelli. La linea ideologica che si stava determinando a livello internazionale era quella che vedeva una sorta di conseguenzialità tra il pensiero di Marx, quello di Engels, quello di Lenin e quello di Stalin. Da parte di Fosco Dunucci non ci fu mai una conseguenzialità che vedesse anche una quinta “testa” da aggiungere alle quattro menzionate. Quindi non Mao né Enver Hoxha. Egli diceva che la storia determinerà la conseguenzialità del pensiero marxista-leninista internazionale, mentre a noi italiani era doveroso rivolgere il nostro pensiero ad Antonio Gramsci, al quale andava riconosciuto il livello più alto di coscienza politica marxista-leninista in Italia. 

Alcuni storici del percorso politico del Pcd’I(m-l) narrano che ad un certo punto (novembre 1968), nel convegno di Rovello Porro (Como) ci fu una scissione (10 dicembre 1968) che portò il partito a spaccarsi in due: una linea cosiddetta “rossa” e un’altra linea, cosiddetta “nera”, quest’ultima capeggiata da Fosco Dinucci. È questa una lettura errata della storia del Pcd’I(m-l), perché sia questa frattura sia quelle che seguirono furono tutte dovute ad azioni condotte da personaggi (la storia li giudicherà) che a loro modo vedevano e consideravano il partito come “cosa e casa propria”. Tutt’altra idea era stata quella di Antonio Gramsci nel 1921, come tutt’altra idea era quella di Fosco Dinucci nel 1966. Per quest’ultimo non c’entravano tanto i riferimenti internazionali (Mao ed Enver), pur necessari nel movimento delle alleanze internazionaliste, quanto invece importava molto il riferimento ideologico al pensiero e all’opera di Gramsci.

Proprio su questo terreno, per Fosco Dinucci la lotta ideologica e culturale era di fondamentale importanza. Nel rapporto che tenne al 4° Congresso nazionale del partito il 21-23 gennaio 1984 a Roma (Hotel Universo), disse che:

            «Insieme con l’esperienza di lotta è necessario l’impegno continuo sul piano teorico, ideologico, culturale. La borghesia cerca di far passare lo sviluppo tecnologico come un “bene di tutti”. In realtà gli elaboratori, i calcolatori, i vari strumenti elettronici, manipolati da centrali al servizio dei monopoli, delle multinazionali, portano all’inquinamento della verità, a operare sulle coscienze, sull’opinione pubblica, nel senso di fabbricare “verità” sul falso, nell’interesse del capitalismo e dell’imperialismo. Nello stesso tempo si conducono campagne contro le ideologie, specificatamente contro l’ideologia marxista-leninista e comunque contro le concezioni progressiste. […] Contro la pressione ideologica e culturale del mondo borghese e imperialista è oggi più che mai necessario opporre un impegno teorico strettamente unito all’esperienza di lotta, che leghi continuamente l’ideologia marxista-leninista della classe operaia alla realtà in sviluppo. Nel campo scientifico e tecnologico, anche quando non ve n’è consapevolezza, per andare avanti si applica il metodo materialista e dialettico. Così, per il progresso umano, il materialismo storico, interpretando le leggi di sviluppo della società, pone come necessaria e attuale la prospettiva della rivoluzione socialista. Occorre iniziativa, creatività, ma non nel senso revisionista di adattamento al presente, bensì nella prospettiva di trasformare la realtà per via rivoluzionaria. Occorre far conoscere il mondo per trasformarlo».

E, per ricordare il significato della nascita del Pcd’I(m-l), nel suo articolo Dieci anni di impegno militante del Partito comunista d’Italia (m-l), scrive:

            «Il 15 ottobre 1966, giorno in cui fu proclamata la costituzione del Pcd’I(m-l), è ormai una data storica: di fronte al tradimento revisionista, gli autentici comunisti decisero di ricostruire il reparto di avanguardia cosciente e organizzato del proletariato italiano […] Al congresso confluirono compagni che avevano partecipato con Gramsci alla fondazione del Partito comunista d’Italia nel 1921 e sostenuto l’adesione all’Internazionale comunista […] e compagni che nel periodo della guerra partigiana si erano battuti per il legame tra lotta di liberazione e lotta per il potere popolare» (vd. «Nuova Unità», a. XIII, n. 38, 19 ottobre 1976).

E ancora, a proposito dell’ideologia marxista-leninista, il suo pensiero è chiaro. Nel libro La forza di essere comunisti, afferma che per essere comunisti in Italia significa non rinnegare l’origine dal partito di Gramsci, sorto a Livorno nel 1921, in contrapposizione all’opportunismo dei dirigenti del Partito socialista:

            «chi è cosciente sa che questa scelta permise di continuare la lotta contro la dittatura fascista nelle più difficili condizioni della clandestinità – ciò che può fare solo un partito leninista sul piano ideologico, politico e organizzativo, come dimostra la storia -, fino alla guida della lotta armata di liberazione contro il nazifascismo durante la seconda guerra mondiale. […] L’ideologia marxista-leninista significa: visione di classe, necessità del partito rivoluzionario della classe operaia./ Questi sono gli ideali comunisti: non un’utopia, ma oggettivo, scientifico esame dei problemi della società e loro realistica soluzione, sulla base dell’ideologia marxista-leninista, che esprime l’esperienza storica della lotta di classe, sulla base del materialismo dialettico e storico, come filosofia – afferma Marx – non solo per spiegare la realtà, ma anche per trasformarla» (suppl. a «Nuova Unità», a. XXIII, ottobre 1986).

Come chiarissimo è pure il suo pensiero sulla Rivoluzione d’Ottobre e l’influenza che essa ebbe sul Pcd’I(m-l). Scrive:

            «Più trascorrono gli anniversari della Rivoluzione dell’Ottobre 1917, più risalta la coerenza del Partito comunista d’Italia (marxista-leninista) nel considerare la validità di quel fondamentale evento storico. Anche nei momenti della più aspra polemica contro il revisionismo kruscioviano (certuni volevano farci passare per antisovietici), distinguemmo tra degenerazione opportunista e valori permanenti dell’Ottobre, di cui il krusciovinismo era l’antitesi./ Abbiamo sempre ribadito l’attualità di questi valori, pur nella considerazione dei mutamenti intervenuti nel frattempo sulla scena mondiale. La Rivoluzione d’Ottobre abbatté il potere della borghesia in un grande paese come la Russia, spezzando così il fronte dell’imperialismo mondiale. Per la prima volta nella storia, andavano al potere gli operai e i contadini, gli oppressi e gli sfruttati, costituendo un punto di riferimento per il proletariato e le masse lavoratrici di tutti i paesi. Furono veramente “dieci giorni che sconvolsero il mondo”. In ogni continente la classe operaia, con alla testa i comunisti, intensificò le lotte, guardando al Paese dei Soviet. Si svilupparono ovunque i partiti comunisti, soprattutto con il contributo della Terza Internazionale promossa da Lenin nel 1919, in contrapposizione ai partiti socialdemocratici della Seconda Internazionale degenerati nel riformismo e divenuti complici della borghesia imperialista fino ad appoggiare le avventure guerrafondaie./ Alla Rivoluzione d’Ottobre, che aveva liberato le nazionalità già oppresse dal potere zarista, guardarono i popoli oppressi e sfruttati dal dominio coloniale dell’imperialismo. Si intensificarono in tutti i continenti le lotte di liberazione nazionale. Sotto la guida del Partito comunista bolscevico, con alla testa prima Lenin, poi Stalin, i quali dettero sempre una primaria importanza all’internazionalismo proletario, l’Unione Sovietica divenne (come fu dichiarato apertamente) una base sicura e potente del movimento rivoluzionario mondiale. Con tale impegno il suo prestigio si diffuse in modo tale che non solo i proletari, ma anche scienziati e personalità di ogni campo della cultura, specialmente negli anni ’30, si recavano in Unione Sovietica tornando pieni di entusiasmo per avere potuto osservare – così dichiarava la maggior parte – lo sviluppo tecnico-scientifico e culturale senza più condizionamento della corsa al profitto, come nei paesi capitalisti. […] Il Partito comunista d’Italia (marxista-leninista), nel giudizio molto positivo sull’edificazione socialista in quel periodo, ha indicato, fra gli errori più gravi, l’aver concentrato il potere in pochi dirigenti, mentre la dittatura del proletariato, che deve essere inesorabile contro i nemici di classe, deve nel contempo promuovere la più ampia democrazia socialista per le masse. Da ciò sono derivati atti come quello di considerare traditori al servizio del nemico e trattare come tali dei semplici dissidenti. Ciò ha favorito lo sviluppo di una certa burocrazia che, Stalin vivente, non ha osato contrapporsi alla politica leninista del Pcus, come ha fatto invece dopo la sua morte, trovando in Krusciov l’espressione del proprio opportunismo (vd. F. Dinucci, La Rivoluzione d’Ottobre e il Pcd’I(m-l), in «Nuova unità», novembre 1989).

Fosco Dinucci morì nella sua casa di Pontasserchio il 28 aprile 1993, dopo un intervento chirurgico ad una ernia inguinale. Ricordo ancora quel triste giorno. Io e Ennio Antonini arrivammo a Pontasserchio alle 14. In fondo a via Vittorio Veneto, scorgemmo il compagno Angelo Cassinera più altri compagni della direzione del partito. La bara era ricoperta dalla bandiera rossa con falce e martello della Brigata “Garibaldi”, che a suo tempo era stata di Alberto Bargagna, altro partigiano combattente e compagno di Fosco. La camera ardente era stata allestita con un’altra grande bandiera rossa con falce e martello inscritti in una stella a cinque punte gialla, simbolo del Pcd’I(m-l). Diverse furono le orazioni funebri, ma qui mi sembra importante riportare il discorso (L’insegnamento teorico e politico di Fosco Dinucci.) di Pietro Scavo, già membro dell’Ufficio politico e della segreteria del Pcd’I(m-l), il 27 giugno 1993 al convegno di Milano organizzato per la costituzione del Centro Lenin Gramsci (nome dato all’associazione dallo stesso Fosco):

            «La vita del compagno Fosco Dinucci è un esempio di infinita dedizione alla grande causa della classe operaia e della realizzazione del socialismo. In lui si fondeva la teoria rivoluzionaria con l’attività pratica. La figura del compagno Fosco riuniva in sé il combattente comunista di prima linea e lo studioso teorico, l’organizzatore del partito comunista e l’ardente propagandista tra le masse, l’instancabile studioso e l’organizzatore delle lotte. Nella sua persona egli incarnava le migliori virtù della classe operaia e delle masse lavoratrici del nostro paese: un infinito odio verso tutti i nemici del proletariato e una fede incrollabile verso la vittoria del comunismo. In Fosco la pratica rivoluzionaria si fondeva con il rigore teorico-scientifico, l’organizzazione e il rafforzamento del partito era inscindibile dall’appoggio alle lotte e all’iniziativa delle masse. […] Da coerente marxista-leninista, il compagno Fosco Dinucci è stato in prima fila contro il revisionismo moderno. Egli, tenendo sempre presente i principi leninisti, diceva spesso che “nelle condizioni dell’imperialismo, fase suprema del capitalismo, la classe operaia non può rimanere a lungo senza il suo partito rivoluzionario”. Con questa convinzione, si è battuto ed ha lavorato per organizzare il Partito comunista d’Italia (marxista-leninista)./ Fin dalla sua nascita il Pcd’I(m-l) ha dovuto condurre, con alla testa il compagno Fosco, una lotta ideologica, politica ed organizzativa contro il “sinistrismo” bordighista e l’opportunismo revisionista. Il sinistrismo e l’opportunismo hanno dimostrato di essere altrettanti pericolosi l’uno quanto l’altro e di avere sovente le stesse radici, ad esempio nella mancanza di fiducia nella forza e nella capacità della classe operaia, delle masse lavoratrici e della loro lotta, nella sottovalutazione delle proprie forze, nella sopravalutazione di quelle del nemico, nel disprezzo verso i milioni di lavoratori non ancora conquistati all’influenza socialista, nell’incapacità di sviluppare un paziente, tenace, perseverante, largo lavoro di massa./ L’esperienza ha dimostrato che un partito comunista non lo si crea in un giorno e non lo si crea una volta per sempre. Per creare un partito comunista capace veramente alla sua funzione d’avanguardia, di portare non solo le masse lavoratrici alla lotta, ma di portarle al successo e alla vittoria, occorrono anni e decenni di intenso, continuo e paziente lavoro. […] Fin dalla sua nascita il Pcd’I(m-l) ha dovuto condurre, con a capo il compagno Fosco, una lotta ideologica, politica e organizzativa contro l’estremismo infantile e contro l’opportunismo revisionista. L’opportunismo, diceva spesso, tende a sciogliere il partito comunista nelle organizzazioni di massa e metterlo alla coda degli alleati nei fronti./ Il problema dell’identità e dell’autonomia è fondamentale per il partito comunista. Come tale, esso è anche uno dei problemi al centro della lotta politico-ideologica nel movimento operaio italiano. L’atteggiamento nei confronti dell’autonomia del partito comunista è la pietra di paragone per ogni partito che pretende di difendere gli interessi dei lavoratori, è l’espressione fondamentale del suo carattere comunista. […] Nelle condizioni del “fallimento del socialismo” nell’Urss e altri paesi dell’Est europeo, i liquidazionisti, assieme agli ideologi borghesi, sostengono che i partiti comunisti devono rinunciare al loro nome e alla loro autonomia. Lo scopo di queste argomentazioni borghesi e riformiste è di allontanare la classe operaia dalla prospettiva del socialismo, di trattarla alla stregua di una forza piccolo borghese, la quale deve lottare all’interno della società borghese. […] L’autonomia della classe operaia non è un’idea campata in aria, ma una legge obiettiva, che deriva dalle stesse condizioni economiche e sociali di tale classe, dai suoi interessi e scopi fondamentali, dal fatto che essa è la protagonista principale del nuovo ordinamento sociale comunista, è armata della teoria del socialismo scientifico ed ha il proprio stato maggiore dirigente politico, il partito comunista./ Lenin collegava l’idea dell’autonomia della classe operaia con la creazione del partito comunista. Senza la funzione dirigente del partito comunista l’autonomia e l’obiettivo strategico della classe operaia non sono che un’espressione vuota di senso. […] Il compagno Fosco Dinucci diceva spesso che “la forza del partito comunista sta in primo luogo nel fatto che esso è composto in grande maggioranza da operai, che esso ha stretti legami con la classe operaia e con le masse lavoratrici”. […] Il carattere proletario del partito comunista è determinato, innanzitutto e soprattutto, dall’ideologia che lo ispira e dalla politica che esso segue, se queste rispondono agli interessi vitali della classe operaia e delle masse popolari e progressiste./ Ma questo è solo un lato del problema. L’altro, come diceva spesso il compagno Fosco Dinucci, è che il partito comunista, essendo la parte più avanzata e più cosciente della classe, deve essere proletario non solo per la sua ideologia, ma anche per la composizione delle sue file. […] L’esperienza storica conferma che uno dei principali motivi della degenerazione di molti partiti “comunisti” in partiti socialdemocratici è proprio l’aver aperto le porte, soprattutto dei loro organi dirigenti, all’incontenibile afflusso degli elementi piccolo-borghesi: aristocrazia operaia, intellettuali democratico-borghesi, burocrati sindacali e così via. Perciò, il compagno Fosco considerava l’incessante proletarizzazione del partito, e specialmente degli organi dirigenti a ogni livello, come un problema, al quale dedicava un’attenzione costante. In ciò egli vedeva una delle vie e delle garanzie più efficaci per l’incessante rafforzamento del partito comunista, per premunire il partito contro gli influssi della pressione borghese e riformista e, nello stesso tempo, per rinsaldare i legami con la classe operaia, per migliorare e arricchire il lavoro del partito al suo interno./ Proprio per questi motivi vanno combattute le concezioni non marxiste, opportuniste e anarcosindacaliste. […] Ciò non significa affatto che si debbano chiudere le porte del partito agli elementi sani degli altri strati sociali, ma l’obiettivo da conseguire è che le porte siano aperte innanzitutto agli operai, alla classe rivoluzionaria e affossatrice del capitalismo, i cui interessi generali sono rappresentati dal partiti comunista. Per quanto riguarda il partito di quadri e di massa, il problema è che il partito deve mirare più alla qualità che alla quantità dei suoi militanti, affinché entrino in esso gli elementi rivoluzionari, fedeli e attivi, sperimentati nel fuoco dello scontro di classe. […] Dopo la sconfitta della prima rivoluzione russa, i revisionisti intrapresero una campagna liquidazionista contro il partito della classe operaia, cercando di dimostrare che era un’organizzazione da “archiviare”. Essi proponevano di sostituirlo con una vasta associazione apartitica, la “Unione operaia”. […] Se allora i marxisti rivoluzionari non avessero sconfitto politicamente i liquidatori, la classe operaia, nell’imminente periodo di slancio rivoluzionario che seguì, si sarebbe trovata disorganizzata e priva della sua guida combattiva, il partito bolscevico. Portare avanti e spingere fino in fondo la lotta contro i liquidazionisti, significa ricordarsi che questa lotta è lo strumento più sicuro per la creazione di un autentico partito comunista. Infatti, non si può creare un vero partito comunista se i comunisti rinunciano alla loro autonomia organizzativa, politica e ideologica, e confondendosi con la borghesia in un cosiddetto polo democratico. Nostro compito è lavorare ogni giorno per creare il partito, per rafforzare lo schieramento della classe operaia e le sue alleanze, per sviluppare una lotta più ampia, unitaria, decisa con la convinzione che i comunisti hanno la forza di vincere. Questo è l’insegnamento che ci ha lasciato il compagno Fosco Dinucci».

E da parte sua il compagno Mario Geymonat, ricordando Fosco nell’aprile 1994,  ad un anno della scomparsa, ne esalta l’esempio politico e morale. Scrive:

            «È ormai un anno che il compagno Dinucci ci ha lasciato, e con lui se né è andata una parte tanto importante della nostra esperienza di vita, quella dei mol­ti che lo hanno frequentato e han­no lottato al suo fianco. L’avevo conosciuto nel lontano 1963, quando per la prima volta ci eravamo incontrati nella sede del­le Edizioni Oriente allora appena aperte a Milano. Era venuto alla guida di un folto gruppo di com­pagni toscani che dentro il Partito Comunista Italiano criticavano de­cisamente Krusciov e Togliatti e che desideravano approfondire quelle che erano allora le posizio­ni dei comunisti cinesi e albanesi. Subito Fosco si impose come il compagno più adatto a guidarci nel cammino difficile per trasfor­mare le nostre speranze in obietti­vi concreti, dalla fondazione di «Nuova Unità» nel 1964 alla pro­clamazione del Partito Comunista d’Italia (marxista-leninista) nel 1966 a Livorno, dalla attiva partecipazione al movimen­to antimperialista che si sviluppa­va impetuoso in quegli anni in Ita­lia e nel mondo al lavoro per la formazione dei primi “Comitati di lotta” nelle fabbriche del nostro paese, dalle riflessioni seriamente autocritiche sui limiti del “movi­mento marxista-leninista” fino all’esperienza breve ma entusia­smante del quotidiano “Ottobre”. Come quadro politico Dinucci era profonda­mente internazionalista ma, co­sciente della responsabilità pecu­liare che aveva nel nostro paese, insisteva sempre con forza sulla necessità di un serrato dibattito per fare avanzare la lotta./ Ciò che ora mi preme soprat­tutto ricordare di lui è il modo in cui egli aborriva dal conformi­smo e dall’adulazione. Diversa­mente da altri compagni che diri­gevano in quegli anni i gruppi marxisti, Fosco non amava chi gli dava sempre ragione e preferiva discutere con i compagni con cui poteva non andare a priori d’ac­cordo. Io ero coscientemente fra questi, e la costante ironia sui miei modi forse un po’ rilassati non si distaccava in noi dal piacere di una vera autonomia intellettuale. […] Un’altra caratteristica peculiare e importante di Fosco era la sua ferma convinzione della necessità di una posizione culturale corretta. Condusse egli stesso una serie di lucide analisi delle con­traddizioni del mondo e del movi­mento operaio ed esortava con passione i compagni a lavorare in quest’ambito. Aveva riunito nella sua grande casa nella campagna pisana i volantini e le testimonian­ze delle lotte a cui aveva parteci­pato direttamente o che conosce­va in concreto e operava testarda­mente a che non andasse disperso il patrimonio di analisi di tante battaglie concrete. Ma soprattutto si impegnò sui classici del pensie­ro marxista e li leggeva insieme alle opere dei maggiori filosofi e scienziati borghesi, guardando ad essi con rigore critico ma sempre con invidiabile apertura mentale. […] L’esperienza di vita lo aveva portato a richiedere molto a tutti, prima di tutto a se stesso. Come un guerriero antico conduceva uno stile di vita semplice e auste­ro, tutto il contrario dei revisionisti che scimmiottavano i modi di vita borghesi. Amava viaggiare per l’Italia sui treni e mischiandosi al popolo e nelle lunghe e tormenta­te riunioni si nutriva solamente dei magri panini che gli preparava la fedele compagna Adriana. Era lieto che la sua vita lo avvicinasse frequentemente e fraternamente ai compagni più umili, ritenendo a ragione che i comunisti hanno sempre da imparare molto da lo­ro./ In questi ultimi mesi la situa­zione in Italia e nel mondo si svi­luppa in modo drammatico e dob­biamo fare gli sforzi più seri per comprenderne a fondo i motivi e le linee. Per questo noi vecchi compagni sentiamo ancora di più la mancanza della passione civile di Fosco, e io sono sicuro che la lotta reale ci imporrà ancora spes­so di ripensare al suo esempio morale».

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